Dicono che Francesco Piccolo sarà il probabile vincitore del premio Strega con il suo Il desiderio di essere come tutti. Io non possiedo le capacità profetiche per confermare questa possibilità ma, per sicurezza, ho pensato bene di intervistarlo a La grande invasione, il festival della lettura organizzato dalle Edizioni SUR a Ivrea. Così, anche se alla fine il premio Strega lo vince qualcun altro, le nostre quattro risate insieme ce le siamo fatte lo stesso.
Per prepararmi all’incontro, ho letto quattro libri di Francesco Piccolo in quattro giorni per vedere l’effetto che faceva. Prima ho cominciato conL’Italia spensierata, poi La separazione del maschio, Piccoli momenti di trascurabile felicità e Il desiderio di essere come tutti. E ho notato, nella mia scorpacciata letteraria, che il modo migliore per parlare di e con Francesco Piccolo è farlo attraversando i suoi libri, legati indissolubilmente proprio dall’idea che sta dietro al titolo dell’ultimo.
Ok, faccio una premessa: ho sempre pensato, e penso tutt’ora, che la letteratura riguardi il rapporto tra libri e lettori e i discorsi che i lettori fanno tra loro sui libri che leggono. In questa dinamica, l’autore empirico, quello in carne e ossa, con un passato e una biografia, non ha alcuna valenza letteraria. Certo, ha valenza sociale, culturale, politica a volte; ma non letteraria. Ecco, Francesco Piccolo sta un po’ a metà di tutto questo pippone perché nei suoi libri lascia evidenti tracce di sé e del suo pensiero; addirittura mi spingo a dire che capire Piccolo e capire i suoi libri è, di fatto, la stessa operazione culturale.
Perché, ed è importante specificarlo subito, Francesco Piccolo non parla di fisica quantistica, non ci snocciola concetti e nozioni di cui non avevamo idea o conoscenza. Non impariamo nulla di nuovo tra le sue pagine ma assistiamo a un modo di pensarle che, spesso, è diverso dal nostro. Ci avevamo pensato, certo, ma forse non ci avevamo mai pensato così. Allora quello che voglio sapere subito da lui è il modo con cui si approccia alle cose del mondo e quali passaggi logici perlustra il suo cervello nel raccontarcele. «Io di solito ci penso poco, pochissimo», mi racconta Piccolo. «Per fare l’esempio deL’Italia spensierata, sono andato negli studi di Domenica In per assistere a una puntata, al cinema il 26 dicembre a guardare Natale a Miami e nel peggiore e migliore autogrill d’Italia. Avevo una gran voglia di fare queste cose e avevo voglia di scriverle, una voglia ostinata e testarda di scrivere cose che mi interessano molto. Di capire cose che mi interessa molto capire. E questo, insieme al fatto che io, come personaggio, sono sempre dentro ai libri che scrivo, mi permette di instaurare un rapporto di empatia, di relazione diretta con il lettore».
C’è un pezzo de L’Italia spensierata che mi fa morire dal ridere (se volete leggerlo tutto, è alle pagine 52 e 53). In breve, Piccolo racconta Tanta voglia di lei, la canzone più famosa dei Pooh, spiegandola per quello che realmente è: un tipo che prima va con una, la illude e poi, dopo aver fatto i suoi comodi, se ne va dicendo che ha un’altra donna che lo aspetta e che non può lasciarla sola. E Piccolo si chiede: be’, va bene tutto ma almeno la prossima volta questa cosa digliela prima di averla scopata, non dopo (fa più ridere letto in originale eh, il riassunto non gli rende affatto giustizia). Ecco, io ho letto per la prima volta questo pezzo in metropolitana ridendo rumorosamente – poi l’ho letto ad alta voce a Ivrea e mi sono messo a ridere mentre parlavo, suscitando l’ilare tenerezza del pubblico – e mi sono chiesto: perché fa così ridere? Secondo me perché c’è uno scarto tra la percezione comune di Tanta voglia di lei e l’analisi che ne fa Piccolo e, più il delta tra i due estremi si amplia, più l’effetto comico è dirompente. Allora perché non ci pensa mai nessuno?
«Non si pensa abbastanza a queste cose perché ci sono già gli scrittori che lo fanno», scherza lui. «Io credo che questo sia un buon esempio di quello che può fare una persona estremamente ossessiva (come sono tutti gli scrittori). Le prime volte che facevo leggere i miei racconti, molti mi accusavano di ragionare troppo, ma io sono convinto che questa ossessione del ragionamento, anche su Tanta voglia di lei, possa servire per raccontare delle cose. L’idea che sta alla base di tutto questo è chiara, anche se spaventosa: Heidegger e i Pooh sono entrambi degni di ragionamento».
Un’altra cosa degna di ragionamento è questa: tutti quelli nati come me nei primi anni ottanta si ricordano benissimo il Nintendo 8 bit e le sue cassette. Quando le cassette non funzionavano io, senza che me l’avesse detto nessuno, ci soffiavo dentro sperando che il gioco partisse. Crescendo, poi, ho scoperto che lo facevano tutti, e in tutto il mondo. Allora non c’era internet, spesso non ce lo confessavamo nemmeno noi tra amici, tuttavia lo facevano tutti. L’unica spiegazione per questo fenomeno è che esista una specie di coscienza collettiva, una serie di intuizioni e approcci comuni al mondo e all’esistenza. Ne La separazione del maschio io sento fortissimo questa cosa delle cassette del Nintendo perché, quando lo leggo, mi trovo spessissimo a dirmi: ah, lo pensa anche lui. E lui è un autore famoso, quindi intelligente, quindi più intelligente di me, quindi mi legittima nel pensarlo. Allora gli chiedo: perché è così rassicurante vedere che qualcuno la pensa come me? E l’autore è o deve essere consapevole di questo?
Piccolo qui è molto chiaro sulla questione: «Un autore che pensa davvero di rappresentare il pensiero di tutti, è finito. Perché poi inizierebbe a dirsi: oddio come sono bravo e comincerebbe a ritenere ogni frase che scrive geniale, perdendo, di fatto, la percezione del proprio ruolo di scrittore. Come dice Nicola La Gioia, una cosa è scrivere un libro, un’altra cosa sono le conseguenze dello scrivere quel libro. E io, alle conseguenze, credo non si debba pensare».
Dopo i primi due libri in cui Piccolo ragionava d’altro insieme a noi, raccontandoci il suo punto di vista sulle cose del mondo, ecco che arrivano i Momenti di trascurabile felicità, dove punta la penna verso di sé e racconta quello che a lui piace, senza pretese di universalità – che poi è l’unico modo per renderlo davvero universale. È un libro particolare, con tantissimi spunti, la cui stesura ha una storia interessante da ascoltare. Che è andata più o meno così:
«Nella mia testa, in questo momento, ho circa venti libri che voglio scrivere e venti file in cui raccolgo appunti su questi libri. Spesso la mattina inizio a scrivere cose che poi metto in questi file e che lascio lì, in attesa. Magari diventeranno libri, magari no. Moltissimi anni fa, forse dieci, ho aperto un file che si chiamava “Momenti di trascurabile felicità”, iniziando piano piano a riempirlo; a un certo punto un mio amico che faceva teatro mi ha chiesto di leggerne dei pezzi in uno spettacolo ed effettivamente sembravano molto divertenti. Allora ho iniziato a pensare che c’era la possibilità di farci un libro, ma ero ancora scettico: l’ho fatto leggere a molte persone, editor, amici fidati, poi abbiamo fatto due prove di letture in pubblico e, alla fine di tutto questo processo, mi sono convinto che funzionasse. E, dopo averne scritto la metà in quasi dieci anni, ne ho scritto l’altra metà in quasi sei mesi».
Questi momenti di trascurabile felicità mi pare funzionino con un meccanismo che chiamerei, con un orribile neologismo, di interessanza. In qualche modo, cioè, vengono resi interessanti momenti che, in realtà, non sono positivi né negativi: sono neutri. L’interessanza del neutro, ecco. Ma allora mi chiedo – e gli chiedo: cosa rende interessante qualcosa? Come mai delle cose che sanno tutti (e quindi che non si avvantaggiano dell’elemento di novità) sono interessanti? «Io credo che è come se si spegnessero tutte le luci e ci fosse un occhio di bue che si concentra solo su una cosa: questo la rende interessante. Momenti di trascurabile felicità è un libro destrutturato (anche se ormai si usa questo aggettivo per tutto) in cui la quantità, la ripetizione e l’accumulo hanno un valore, trasformando questa struttura in una sfida al lettore, mettendolo di fronte a qualcosa che conosce ma su cui non ha mai riflettuto».
E finalmente arriviamo a Il desiderio di essere come tutti. Dopo la vittoria del PD alle elezioni europee, ho letto da qualche parte su internet qualcuno che parlava delle doti profetiche di Francesco Piccolo: le dimissioni di Ratzinger dopo Habemus Papam (Piccolo ne ha scritto la sceneggiatura) e il trionfo di Renzi collegato all’idea del piacere della sconfitta della Sinistra italiana argomentato nel suo ultimo libro. Ora, io non credo che Piccolo sia un profeta ma piuttosto che funzioni come i tarocchi. Jodorowski, infatti, diceva che i tarocchi non predicono il futuro ma dispongono il presente. E se disponi bene il presente, con la combinazione di carte giusta, scorgi in controluce quello che verrà.
«Io non sono certo un profeta», tiene a precisare Piccolo. «Anche se dopo le dimissioni del papa, mi è arrivato subito un messaggio di un mio amico che mi chiedeva di scrivere un film sulla Roma che vince lo scudetto. La verità, comunque, è che questo risultato è sorprendente anche rispetto a questa morbosa passione per la sconfitta della Sinistra di cui parlo ne Il desiderio di essere come tutti. C’è una parte rassicurante delle persone di Sinistra che dicono: noi siamo molto migliori del resto dell’umanità, deteniamo il sapere e tutte le formule per diventare un popolo civile. Però non fatecele mettere in atto, perché metterle in atto è un casino. Se non le mettiamo in atto, rimaniamo quelli che sanno cosa fare, ma non lo fanno. E questo è molto rassicurante».
Jacopo Cirillo e Francesco Piccolo durante l’intervento a La Grande Invasione
L’impressione che ho, dopo aver letto questo libro, è che sia un libro molto sano. Non saprei usare un termine migliore: sano. Ma allora, non è che, alla fine, sono tutti ad avere il desiderio di essere come Piccolo? E, di più, non è che, alla fine, il desiderio di essere come tutti sia una cosa sana?
«Questo è un libro che si può definire positivo. È un libro contro l’Apocalisse, contro l’idea che faccia tutto schifo e che non ci sia più nulla da fare. Ho cercato di costruire attraverso la vita di una persona – uno che è diventato comunista dopo aver visto una partita di calcio – un senso di profondità che sapesse anche tenersi stretti la superficialità e la mondanità, tutti elementi discutibili per qualcuno di Sinistra. Il mio protagonista ha la voglia di accogliere e di convivere con persone che non la pensano come lui. E questa è una cosa rivoluzionaria rispetto agli ultimi vent’anni. Perché in Italia sembrava che ci fosse un muro che divideva i berlusconiani da tutti gli altri. E tutti gli altri erano chiunque non fosse berlusconiano. Questa sorta di linea di demarcazione definitiva tra due Italie secondo me è da abbattere. Mi spiego con un esempio: Cuore, un giornale che ha dato un grande senso di coinvolgimento alle persone di Sinistra, aveva nell’ultima pagina una classifica sulle cose per cui vale la pena vivere. E al primo posto, dal primo numero di Cuore fino all’ultimo, senza mai passare al secondo, c’era la fica. Quindi anche quel mondo della Sinistra non è che fosse molto diverso da quello spaventoso di Berlusconi che si portava le donne a casa di notte e regalava battute goffe e infelici un po’ dappertutto. L’Italia è fatta di difetti e virtù molto condivisi che non devono essere scacciati, ma compresi. Le differenze sono facili da trovare, per le somiglianze è molto più difficile, ma anche molto più importante. Se io somiglio più di quanto penso alla persona che mi sembra più diversa da me al mondo, vuol dire che almeno c’è un punto da cui partire per migliorare non la mia parte, ma l’intero paese».
Scroscio di applausi dal pubblico.
Insomma, avete capito più o meno di cosa abbiamo parlato io e Francesco Piccolo. Ma c’è un’ultima cosa che vorrei dire, che non ho avuto modo di dire all’incontro. E cioè che il desiderio di essere come tutti innerva i suoi libri, ed è forse per questo che questi libri sono scritti così. Piccolo prova a “farsi” tutti, a paradigmarsi. Ma la rappresentazione che dà di se stesso non è egocentrica o personalistica. Non dice: fate come me. Piuttosto si rappresenta come tutti. Afferma la propria individualità parcellizzandola. Si liquefa in un “tutti” che non indica, però, la massa indistinta, la folla manzoniana dell’assalto ai forni delle Grucce. Al contrario, quel “tutti”, e forse è questa la cosa più bella dei suoi libri, è ciascuno di noi.