Una preziosa scoperta
Durante il recente Comicon, svoltosi a Napoli all’inizio del maggio scorso, in pochi giorni ho divorato più fumetti che in tutti mesi precedenti dell’anno. Nella stordente ridda di appuntamenti, interviste, articoli e incontri (resa ancora più frenetica in virtù del muro umano di cosplayer da valicare ad ogni spostamento), la mia attenzione non si era inizialmente soffermata sul grande volume Bao in bianco e nero, La gigantesca barba malvagia di Stephen Collins. Un volume dal formato ingombrante, inusuale, con una copertina spiazzante: un minuscolo volto umano dal quale erompe una spropositata, gigantesca appunto, barba nera.
Devo questa preziosa scoperta all’insistenza di Stefano Simeone, che mi ha praticamente costretto a leggerlo, convinto che avrebbe incontrato i miei gusti. Ad oggi posso dire che si tratta del libro che, tra quelli letti durante la manifestazione, mi ha colpito di più, oltre ad essere fra i più interessanti dell’intero catalogo Bao.
Una miniera di spunti nell’apparente semplicità
Già alla prima lettura, una serie di intuizioni e riferimenti si sono imposti alla riflessione.
Ho avuto immediatamente l’occasione di confrontarci con l’autore a riguardo ( in questa conversazione). Con un incantevole aplomb britannico, Collins ha confermato alcune delle mie istantaneee percezioni, sia confermando alcune influenze da me indicate, che riconoscendo la pertinenza di altri accostamenti, pur con autori di non sua frequentazione.
La disposizione dello schema narrativo colpisce subito per la sua archetipica semplicità: il protagonista vive nell’isola di “Qui”, dove tutto è perfetto, ordinato, cristallizzato in una impeccabile prevedibilità quotidiana: strade pulite, servizi efficienti, lavoro rassicurante, uomini dignitosi e rasati. Ma, al di là del mare, c’è l’inquietante, innominabile “Lì”, luogo di disordine, caos, oscurità.
Eppure, l’autore, molto consapevole, ci suggerisce fin dalla prima descrizione il grande gioco concettuale a cui ci sta invitando; descrivendo il mondo di “Qui” e la sua benevola influenza sulla psiche del protagonista, Collins lascia un importante segnale al lettore attento: «Era tutto così consueto. Così… Completo. Ecco la parola. Completo.(…) tanto gli piaceva disegnare la strada. La trovava bellissima. E trovava sollievo nel suo ordine. (…)Tutto era impeccabilmente lindo, in maniera inconsueta». Apparentemente, nulla di strano. Ma se leggiamo bene, c’è una contraddizione evidente: nell’apparente conseguenzalità logica, l’ultima frase smentisce tutto ciò che è stato detto prima. Quel “inconsueta” nel finale è il puntino nero dello Yang, la presenza irriducibile dell’unheimlich: ciò che è disturbante, perturbante, non a caso, letteralmente, «ciò che non è familiare».
Interessante che, nella mappa del mondo in cui siamo introdotti, il mare, l’elemento misterioso e avventuroso per antonomasia, sia visto come la zona di confine minacciosa, inquietante, verso cui voltare lo sguardo, in quanto possibile viatico all’approdo nel caos.
Anche qui: un archetipo semplice, e per questo potente. Baudelaire decretava: «Uomo libero, amerai sempre il mare», suggellando una tradizione che vede nell’immenso precedente omerico la visione del mare come luogo della possibilità, il teatro della scoperta e della conoscenza.
Ma gli uomini di Qui, pur non essendo bruti, non seguono «virtute e canoscenza», non supereranno mai i danteschi limiti imposti all’uomo di loro spontanea volontà: la loro condizione è di confortevole ignavia. Proprio per questo temono il mare come la porta di un ineluttabile baratro.
L’irruzione dell’assurdo
E proprio in questa cornice linda e confortevole, nell’invariabile tran-tran del protagonista Dave, l’assurdo irrompe incontrollabile nel quotidiano.
Dall’unico, invisibile pelo che gli spuntava dal glabro volto, comincia, senza alcun motivo né preavviso, a crescere un enorme, incontrollabile, gigantesca barba.
Un incidente apparentemente banale, ma che nella sua disarmante, incontenibile potenza assurda, lo condurrà, in un crescendo insensato, a perdere lavoro, dignità, mobilità, intimità, fino a venir letteralmente attratto, come da un magnete oscuro, dal temuto regno del caos.
La barba, antichissimo segno di sapienza, diventa invece il marchio della diversità, dell’inettitudine elevata e distorta a pericolo sociale.
La sua condizione di mostruoso unicum conduce però, lui e i testimoni dell’evento, in un luogo interiore, in uno stato di coscienza diverso: la barba «sembrava eludere ogni tipo di definizione», creando negli spettatori del fenomeno «la sconcertante sensazione che uno dei più oscuri e sepolti incubi migrasse verso la superficie», abolendo il tempo e la logica, «al punto che la realtà sembrava scorrere… senza sequenzialità»
Anche qui Collins gioca sapientemente con parole e concetti: la barba enorme, mostruosa tende «verso l’interno». È chiaramente non solo un luogo fisico. L’irruzione dell’assurdo nella superficiale serenità quotidiana diviene obbligo all’introspezione e alla scoperta di sé.
Leit-motiv del Novecento
Fin dalla prima tavola del libro si suggerisce l’accostamento tra la barba e la natura (le foglie degli alberi da tagliare, per mantenere il decoro pubblico). È proprio l’impossibilità di controllare l’impulso della natura, l’eruzione del subconscio, lo scatenarsi dionisiaco delle forze telluriche dentro ognuno di noi, il grande tema filosofico del libro.
Tutto ciò, esponendo il tragico fallimento della normalità borghese, messa in crisi dalla manifestazione del puro istinto. Come ricordato nella conversazione con l’autore, si tratta di un tema eminentemente novecentesco.
Proprio in questi giorni ricorreva il Bloomsday, il 16 giugno in cui inizia l’Odissea moderna nella mediocrità borghese di Leopold Bloom, l’Ulisse di Joyce. Ma la lista potrebbe allungarsi e divenire spunto per un saggio in tre tomi: da L’uomo senza qualità di Musil a La coscienza di Zeno del nostro Svevo, dove l’impossibilità di controllare un vizio compulsivo conduce a una auspicata visione apocalittica. Per non parlare di Uno, Nessuno e Centomila di Pirandello, in cui una banale osservazione fisica innesca un processo di smarrimento dell’identità. Molti penseranno a Beckett, ma a io penso all’altro grande maestro del Teatro dell’Assurdo, il grande, troppo spesso dimenticato, genio tragicomico di Ionesco. Il suo Il Rinoceronte miè apparso come il più pertinente precedente letterario dell’opera. Anche l’atteggiamento di Dave davanti all’assurdo che conquista la sua esistenza, dall’ignavia iniziale fino a una sorta di quieta accettazione quasi zen, non ha potuto non ricordarmi il finale de Lo Straniero di Camus (ripreso pari pari ne L’Uomo che non c’era dei fratelli Cohen). Accostando i titoli delle due opere, si ottiene la formula dell’alienazione moderna: la condizione di diversità conduce allo straniamento e, infine, alla morte sociale, alla rimozione dell’identità.
L’eterna fiamma dell’illusione
Colonna sonora della normalità di Dave, precedente all’inaudito incidente, era la canzone Eternal Flame delle Bangles. Scelta solo apparentemente casuale. Si tratta di una canzone gradevole dal testo che ci accompagna scioccherello su una melodia amabilmente d’antan.
È illuminante (proprio il caso di dirlo) che l’idea della canzone sia nata dalla visione di due fiamme «eterne» poste su due diversi altari: una durante una visita del gruppo a Graceland, nel tempio pop dedicato ad Elvis; l’altra emerse dalla memoria di uno degli autori, ricordata nella sinagoga della sua infanzia. Il senso del sacro e il culto del mainstream si uniscono come elementi di ispirazione in un brano che nasconde molto più di quello che possa sembrare, sotto la superficie di una spensierata canzone d’amore.
Il brano è pubblicato verso la fine degli anni ’80, l’epitome temporale della finzione industriale nell’arte, ma evoca atmosfere degli anni ’60, se non anteriori. Gli autori diranno di essersi ispirati ai Beatles e ai Byrds. In realtà, i cori e il ritornello ci ricordano l’inquietante stucchevolezza degli anni ’50. Una cifra estetica che un regista quale David Lynch ha sempre usato come codice formale del male che si annida sotto la luccicante apparenza sociale (vi rimando alle impeccabili riflessioni di Davide Martirani sul tema).
Il verso chiave del ritornello — «Am i only dreaming?» — sembra un sardonico commento alla vicenda del protagonista, che potrebbe stare in calce ai film più celebri del regista americano.
Un finale geniale
Molte opere contemporanee s’impongono per brillanti intuizioni iniziali, ma, spesso, nella rincorsa effimera all’originalità a tutti i costi, deludono le aspettative, non approfondendo degnamente lo spunto introduttivo. Un vero tradimento nei confronti del lettore, una promessa di bellezza non mantenuta. Al contrario, Stephen Collins stupisce proprio nel finale. L’originalità della coda della vicenda merita di non essere spoilerata.
Posso solo dirvi che ci ho davvero visto lampeggiare la vitalità di un’intelligenza consapevole della perversione dei meccanismi sociali. L’ennesimo tentativo umano, destinato al prossimo fallimento, di inscatolare il mistero negli angusti limiti della nostra mente.
Con sapiente circolarità, Collins inchioda la tracotanza razionale dell’uomo moderno alla miseria della sua inconsapevolezza: «Nessuno si accorse che quell’evento più che straordinario era stato assorbito nel flusso della vita. Familiare come una canzone famosa». Il teorema è dimostrato.
Buona lettura