Gli Stati Uniti hanno attaccato le postazioni dei miliziani dell’Isis nel Nord della Siria nella notte tra lunedì 22 e martedì 23 settembre usando aerei caccia, bombardieri e missili da crociera Tomahawk lanciati da navi posizionate, come riferisce il comunicato diffuso dal Comando centrale degli Stati Uniti, nelle acque internazionali del Mar Rosso e del Golfo Persico. Gli Stati Uniti non specificano quali sono stati di preciso i target. Ma da Londra, gli attivisti dell’Osservatorio siriano per i diritti umani riportano che ad essere stati bombardati sono obiettivi del Fronte al-Nusra legato ad al-Qaeda nelle province di Idlib ed Aleppo, nella Siria nord-occidentale. Ma sono stati colpiti anche il quartier generale dell’Is ad Abu Kamal, nell’est, e alcuni campi di addestramento dei jihadisti nella provincia orientale di Dayr az-Zor. L’operazione militare non è ancora terminata.
Ci sono tuttavia tre cose in particolare da osservare in questo ultimo attacco massiccio lanciato dagli Usa:
1. Siria alleato chiave, ma Obama non può dirlo
La Siria ha accordato agli Stati Uniti la possibilità di attaccare parte del proprio territorio. Quando il 10 settembre Barack Obama aveva annunciato in Tv la possibilità di estendere i bombardamenti contro i miliziani dell’Is anche in Siria, senza chiedere l’ok del Parlamento Usa, il governo di Damasco e il suo alleato moscovita avevano messo in guardia Washington: attacchi militari sulla Siria significherebbero una violazione della legge internazionale.
Obama annuncia la possibile estensione sulla Siria degli attacchi aerei contro Isis, il 10 settembre
Prima di colpire, gli Stati Uniti hanno avvertito Damasco. Il ministro degli Esteri siriano ha confermato oggi alla Tv di Stato che «gli americani hanno informato il rappresentante Onu siriano che avrebbero bombardato le postazioni dell’organizzazione terroristica dello Stato Islamico a Raqqa». Il governo di Damasco ha aggiunto di aver ricevuto una lettera del Segretario di Stato Usa, John Kerry, attraverso il ministro degli Esteri iracheno in cui si diceva che gli Stati Uniti e i loro alleati avevano in programma di attaccare lo Stato Islamico in Siria. E Damasco ha detto ok.
La Siria dunque si dimostra “alleato” chiave in questa guerra contro lo Stato Islamico e Barack Obama non può fare a meno della sua collaborazione. Su una grossa fetta del suo territorio si estendono non solo lo Stato Islamico, nemico numero uno degli Usa, ma anche altri gruppi terroristici come Jabat al Nusra e il recentemente scoperto Khorasan, considerati serie minacce dagli Stati Uniti.
Il Presidente siriano Bashar al Assad, lo scorso anno era il nemico n.1 degli Usa, ora rischia di diventare il Paladino della guerra all’Isis(TIMOTHY A. CLARY/Getty Images)
Ma sebbene la Siria abbia espresso pochi giorni fa l’intenzione di partecipare militarmente e con operazioni di intelligence all’azione degli Usa contro Isis, il Presidente Obama non accetterà (almeno ufficialmente) la collaborazione di quello che esattamente un anno fa era il nemico principale della sua amministrazione, il dittatore che lanciava armi chimiche sulla propria popolazione e contro cui gli Usa hanno rischiato di impegnarsi in una nuova guerra.
L’impossibilità di coinvolgere ufficialmente e ampiamente la Siria e l’altro Paese sciita del vecchio “Asse del male”, l’Iran, si conferma la principale debolezza della strategia Usa contro Isis (Per approfondire questo aspetto clicca qui).
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Attorno alle 16.00 del 23 settembre, mentre Assad si dice «pronto a sostenere ogni sforzo contro il terrorismo», un’agenzia diffonde il commento di Jen Psaki, portavoce del Dipartimento di Stato degli Stati Uniti, sulla “richiesta di permesso” fatta a Damasco per poter colpire il nord della Siria:
Nel suo discorso del 10 settembre, il presidente Obama «ha messo in chiaro che gli Usa non esiteranno ad intraprendere azioni dirette» contro l’Isis e altri gruppi terroristi in Siria che minacciano gli Stati Uniti, ha affermato Psaki, aggiungendo che da allora «abbiamo informato il regime siriano direttamente della nostra intenzione di intraprendere azioni, tramite il nostro ambasciatore alle Nazioni Unite al rappresentante permanente siriano alle Nazioni Unite». «Abbiamo ammonito la Siria a non affrontare gli aerei americani. Non abbiamo chiesto il permesso del regime. Non abbiamo coordinato le nostre azioni con il governo siriano. Non abbiamo fornito informazioni preventive a livello militare o alcuna indicazione dei tempi e obiettivi specifici», ha detto ancora Psaki, aggiungendo che «il segretario Kerry non ha inviato alcuna lettera al regime siriano».
Il rischio che gli Usa vorrebbero evitare è appunto quello di rafforzare Assad e il suo regime. Ma la guerra all’Isis sembra non portare altrove.
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2. L’accento sulla partecipazione dei Paesi arabi
Nel comunicato diffuso dal Comando centrale degli Stati Uniti si precisa che agli attacchi aerei hanno partecipato i partner degli Usa, compresi Giordania, Bahrein, Arabia Saudita, Qatar e Emirati Arabi. Il sottolineare proprio la presenza dei Paesi del Golfo, oltre allo storico alleato giordano, ha per Washington e per il debole presidente Obama un importante ritorno di immagine, dimostrandosi capace di raccogliere attorno a sé anche la collaborazione delle potenze locali che fanno riferimento all’Islam sunnita, chiamate a condannare forme di estremismo religioso (per approfondire questo aspetto si veda la nostra analisi sull’evoluzione dei Paesi del Golfo).
3. Il Khorasan, questo sconosciuto
Un nuovo nemico si è manifestato negli ultimi giorni. Si chiama Khorasan ed è un «network – così lo descrive lo stesso esercito Usa – di veterani di al-Qaeda» che hanno come unico scopo quello di tramare, dalla Siria, contro gli Stati Uniti e i loro interessi. I raid contro le loro postazioni – precisano gli Usa – sono stati avviati per prevenire «un imminente attacco contro gli Usa e gli interessi occidentali» e sono stati fatti solo dagli Usa e non dai loro alleati, spiega il comunicato del Comando Centrale. A diffondere la notizia di questa nuova minaccia è stato con un articolo del 20 settembre il New York Times. Il gruppo qaedista avrebbe le radici in Iran e sarebbe composto da jihadisti provenienti dal Pakistan e dall’Afghanistan, ma anche da alcuni Paesi occidentali. Il nome Khorasan deriva dalla regione storica che comprendeva parte degli attuali Iran, Turkmenistan, Uzbekistan, Tagikistan e Afghanistan. Secondo i funzionari citati dal quotidiano, il gruppo sarebbe guidato da Muhsin al-Fadhli, un vecchio esponente di Qaeda che, secondo il Dipartimento di Stato era molto vicino a Osama, tanto da essere al corrente dell’attacco alle Torri Gemelle dell’11 settembre, prima che accadesse.
Muhsin al-Fadhli, leader del gruppo qaedista Khorasan, nuova minaccia oper gli Usa
Il Khorasan è un nuovo elemento che costringe Obama a riaprire il capitolo Siria. E lo mantiene ancora una volta legato a quel Medio Oriente da cui sarebbe volentieri fuggito.