Sebastian Mayer, fotografo di base in Iraq e Alicia Wittmeyer, assistente caporedattore di Foreign Policy raccontano in questo articolo come fanno le agenzie fotografiche internazionali a raccogliere immagini dalle città e villaggi caduti nelle mani di Is tra Iraq e Siria.
La presa di potere improvvisa di ampie zone dell’Iraq da parte dei miliziani dello Stato Islamico, spiegano i due, è una delle storie più importanti di quest’anno, ma anche una delle più difficili da coprire. Il gruppo estremista Is, infatti, si è reso famoso per la sua brutalità, per il rapimento e l’uccisione di alcuni giornalisti occidentali. Sono pochi i fotoreporter che sono riusciti a restituire immagini e racconti dall’interno dei villaggi conquistati, mentre la maggior parte di loro si è limitata a osservare i movimenti dei miliziani dai confini, dai campi profughi curdi oppure lavorando accanto ai soldati iracheni.
Ma i pochi che ci sono riusciti come hanno fatto? E come riescono le agenzie a verificare l’autenticità delle immagini?
Ecco il racconto delle vicende di Abu Mirwan (fotografo che si dichiara terrorizzato dagli jihadisti, ma anche attratto dai soldi che riesce a guadagnare vendendo immagini di vita quotidiana tra i miliziani) e del giornalista Mohammed, punto di contatto di Associated Press a Mosul, Iraq.
(Abbiamo selezionato e tradotto alcuni passaggi dell’articolo pubblicato da Foreign Policy)
Abu Mirwan – un nome di fantasia – lavora come fotografo in Iraq da più di dieci anni. In un’intervista telefonica di inizio agosto ha raccontato che stava raccogliendo immagini per un’agenzia internazionale (ma non ha rivelato per quale). Dopo la presa di potere dell’Is a Mosul, Mirwan, iracheno sunnita, ha raggiunto un agente del Califfato, il quale gli ha assicurato che avrebbe dato il permesso di continuare a lavorare. L’agente ha mantenuto la promessa, racconta Mirwan.
Ha pranzato insieme a tre leader di Is, i quali gli hanno assicurato che lo avrebbero aiutato passandogli storie e invitandolo agli eventi dello Stato Islamico.
Ma la cordialità non è durata a lungo. Mirwan spiega che pochi giorni dopo gli hanno fatto incontrare un altro membro della leadership dell’Is. E il colloquio è stato decisamente diverso. Il leader jihadista ha minacciato Mirwan, dicendogli che se avesse fatto qualsiasi cosa capace di danneggiare l’immagine di Is, lo avrebbero ucciso, e che se avesse scattato fotografie senza che lo Stato islamico ne fosse a conoscenza, avrebbe ricevuto cento frustate.
Da quel momento in poi, gli hanno detto, prima di inviare le sue immagini , avrebbe dovuto mostrare la sua memory card per ottenere l’approvazione.
E questo è il modo in cui Mirwan ha operato fino ad ora. Lo Stato islmico lo invita a coprire gli eventi come le parate militare o i raduni. Lui fotografa con una guardia del corpo al seguito e quando ha finito filtra le sue immagini con un membro di Is prima di mandarle all’agenzia internazionale con cui lavora, o a un agente locale con cui è in contatto, che a sua volta le gira ai suoi contatti internazionali.
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Mirwan dice di essere spaventato. Ma i soldi che riesce a fare vendendo all’agenzia internazionale sono buoni, dice, e scattare è l’unico modo che conosce per guadagnarsi da vivere.
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Ma non tutte le immagini che escono dallo Stato Islamico sono conrollate come quelle di Mirwan. Mohammed (anche lui usa uno pseudonimo per paura di una rappresaglia dell’Is) lavora come giornalista da dieci anni e al momento gestisce una agenzia fotografica con base a Mosul, dove due fotografi lavorano per lui. In un’intervista telefonica di fine giugno, dice che la sua agenzia vende tra le sette e le dieci immagini al giorno a circa 50 dollari a foto. Lavora con una varietà di agenzie, spiega, ma per lo più con Associated Press.
L’agenzia non conosce chi sono i collaboratori che gli passano le foto. Mohammed spiega che i suoi reporter lavorano senza il permesso dell’Is, scattando immagini di nascosto con il telefonino e inviandole fuori dal territorio controllato dai miliziani attraverso il satellite.