Sembrava una svolta drammatica, e finisce a opera buffa. Come spesso avviene in Italia e troppe volte nell’Italia “pubblica”, si parte tra pifferi e tamburi annunciando cambiamenti radicali ma il viaggio si rivela circolare, e dopo poco ci si ritrova mesti e sfiduciati allo stesso punto di prima. È quel che sta avvenendo nella vicenda dei 767 vigili urbani di Roma assenti dal servizio a Capodanno. Il presidente del Consiglio fece fuoco e fiamme annunciando sanzioni e punizioni. Il sindaco disse che la misura era piena. Ora, in capo a tre settimane, i numeri parlando da soli. E sono numeri che suscitano imbarazzo e incredulità, come capita quando ci si scopre vittima di una burla e ce la si prende con se stessi, per esserci cascati. Perché di 767 vigili renitenti, i deferiti alla commissione disciplinare per malattia dubbia sono in tutto e per tutto 6. Più un’altra ventina, forse non in regola per non aver risposto all’obbligo di reperibilità sostituiva.
Sei finti malati su 767 è una quantità che dice tutto. Se finisce davvero così, i sindacati dei vigili partiranno lancia in resta per chiedere le scuse ufficiali davanti a tutta Italia. E chissà che non le ottengano. Per il sindaco e per il premier, sarebbe una bella figura da don Chisciotte e Sancho Panza. E per i romani e per tutti gli italiani, una nuova doccia gelata di sfiducia e rassegnazione. Perché se non si schioda nulla nemmeno di fronte a un caso tanto eclatante, e come tale segnalato, vissuto e condannato dai massimi vertici politici nazionali e della Capitale, allora chiedere a tutti i cittadini di nutrire fiducia in svolte e cambiamenti pubblici diventa non un atto ragionevole, ma un atto di fede. Mettiamolo in chiaro: un esito tanto paradossale è un nuovo eclatante segnale che basta sapersi ben organizzare sul filo dei regolamenti e delle norme, e si può continuare nel mondo pubblico a fare i furbi senza pagare ammenda. Altro che svolta.
Non stiamo generalizzando. Per favore ci si risparmino contestazioni sul fatto che manchiamo di rispetto ai vigili di Roma, al corpo e a tantissimi dei quasi seimila di loro. È l’esatto contrario: noi parliamo a difesa dell’onore e della dedizione di tantissimi vigili urbani e dipendenti pubblici. Non li accomuniamo ai furbi, né ai volpini sindacalisti che nella notte di Capodanno a Roma hanno orchestrato l’astensionismo di massa come sciopero non dichiarato: per il contratto, contro la rotazione, per la richiesta che la disponibilità festiva si paghi come straordinario, e per tutte le altre ragioni discutibili ma legittime se avanzate nelle forme di un magari muscolare confronto sindacale con il Comune, ma che in nessun caso e mai possono legittimare la renitenza al lavoro dietro le giustificazioni consentite a chi è malato per davvero, non a chi lo decide a tavolino.
Purtroppo, questa fine da opera buffa non ci fa ridere per niente. Conferma che le regole e i princìpi possono essere anche affermati nelle norme vigenti – visto che i falsi attestati di malattia sono già da anni causa di licenziamento per giusto motivo nel pubblico impiego – ma restano nella realtà sterili e inefficaci grida manzoniane. Comprova che, a furia di dirigenti pubblici inadempienti all’obbligo loro spettante di giudicare produttività e regolarità delle prestazioni di lavoro dei loro sottoposti, alla fine la collusione verso chi ne approfitta regna sovrana. Attesta che è inutile punire sulla carta i falsi certificati, se poi non si dispone di un servizio medico ispettivo operante in tutte le fasce del giorno per smascherare dipendenti finti malati e medici compiacenti.
Tutto questo i furbi lo sanno benissimo. Ed è di questo che si fanno forti. Questa è la ragione per la quale i sindacati insorgono contro chi considera quanto avvenuto a Capodanno una vergogna, urlando che si tratta di calunnie irrispettose. E tutto questo anche i politici lo sanno benissimo: perché sono loro per primi che da decenni non hanno spinto e obbligato i dirigenti pubblici a monitorare i comportamenti dei sottoposti, sono loro ad aver sospeso dal 2011 la comunicazione annuale al parlamento del rapporto sull’assenteismo pubblico e privato comparato.
Ma, proprio per questo, politici che finalmente vogliano cambiare verso devono anche sapere che, una volta annunciata una svolta vera, che anche simbolicamente consegni al passato tanti decenni di collusione, allora tale svolta si deve vedere e toccare con mano, nei fatti e nei numeri. A Roma, sta succedendo l’esatto opposto.
E vedremo se allo stesso modo finirà anche la partita del salario di produttività, se terminerà davvero l’era che lo vede spalmato a tutti in parti uguali, perché nessuno davvero giudica gli obiettivi conseguiti dal lavoro pubblico secondo veri parametri e risultati noti ex ante e misurabili ex post. Nelle norme disciplinari della PA riformate 2009 è previsto fino al licenziamento per basso rendimento, a seguito di un esame biennale della produttività offerta dal dipendente nello svolgimento delle proprie mansioni. Se si viene bocciati, scatta la sanzione. Ma non è un caso che dei 200 licenziati pubblici nel 2013, cioè solo lo 0,0068% dei dipendenti statali, non uno solo sia per scarso rendimento. Per tre ragioni almeno.
Perché l’esame biennale di produttività sia efficace, occorre infatti non una nuova legge ma che nei contratti pubblici siano inseriti parametri di efficienza oggettivi e soggettivi, noti ex ante e calibrati per funzione e per dipendente, in maniera tale che il loro non rispetto nel minimo dell’obiettivo configuri inaccettabile mancanza al proprio dovere tale da essere sanzionata, mentre il loro ottenimento oltre una certa soglia faccia scattare invece il premio salariale alla produttività. Occorre poi prevedere che i dirigenti pubblici siano tempestivi e precisi nel compiere la valutazione del rendimento dei dipendenti a loro soggetti, senza indulgere nella prassi imperante di buone valutazioni uguali per tutti. E che, proprio per evitare tale andazzo tanto diffuso nel pubblico impiego, in primis la valutazione degli stessi dirigenti tenga conto del dovere compiuto nel giudizio della produttività e rendimento dei loro sottoposti. Perché in caso contrario la sanzione deve scattare in primis a carico del dirigente. Senza dirigenti pubblici davvero motivati alla verifica degli obiettivi, la pubblica amministrazione resta una macchina opaca, e l’invito ad approfittarne si fa implicito ed esplicito.
La serietà di un paese si giudica innanzitutto dalla serietà con cui chi lo serve viene considerato e rispettato. Sei deferiti e 761 salvati vuol dire non prendere sul serio non solo i cittadini romani che pagano le tasse, e quelli di tutta Italia che hanno contributo a due decreti salva-Roma in pochi anni. Significa innanzitutto non prendere sul serio e mancare di rispetto ai tantissimi dipendenti pubblici che non lo meritano, e sui quali cadrà ancora una volta il discredito popolare. Messa così non è un film che finisce in bonarie risate alla Totò e Peppino. A giudicare dalla vicenda capitolina, la riforma della PA italiana rischia di essere un film di Buñuel, che fa restare solo l’amaro in bocca.