«Riflettiamo su introdurre degli strumenti che vanno sotto il nome generico di bad bank, ma possono assumere varie forme. Ci sono varie opzioni e le stiamo esaminando, anche tenendo conto delle implicazioni sulle regole europee sugli aiuti di Stato». Con queste parole a la Repubblica il ministro dell’Economia Pier Carlo Padoan ha riaperto una questione che era scomparsa dai radar del dibattito economico italiano da circa un anno. Parole a cui hanno fatto eco quelle del governatore della Banca d’Italia, Ignazio Visco, che a Davos ha definito la bad bank “un’idea interessante”, prendendo al balzo la palla alzata da Padoan e appoggiando più esplicitamente l’idea dopo la cautela degli anni scorsi. L’Abi, l’associazione delle banche italiane, in questi anni è invece stata contraria. Troppo importante far vedere all’esterno che gli istituti di credito italiano erano solidi e lontani dalle situazioni drammatiche delle banche spagnole, affossate dallo scoppio della bolla immobiliare, così come di quelle irlandesi.
Molte cose sono però cambiate: l’ammontare nei bilanci delle banche delle sofferenze, i crediti deteriorati più a rischio perché i soggetti debitori sono in stato di insolvenza, noti con la sigla di Npl (non performing loan), è cresciuto in pochi anni dai 45 miliardi di euro del 2006 ai 180 della fine del 2014. A questa cifra si devono aggiungere circa 100 miliardi di incagli, crediti verso aziende in forte difficoltà ma con prospettive di recupero, almeno potenziale. Ma soprattutto sul sistema bancario italiano è arrivata la pialla della Bce, ed è questa la circostanza che rende possibile fare ora quello che non si poteva fare prima.
Perché ora si può fare
Prima l’asset quality review e gli stress test, poi il passaggio della vigilanza delle banche dell’area euro sotto la Bce. Questi due passaggi stanno facendo superare le tradizionali barriere all’introduzione di una bad bank di sistema anche in Italia.
L’asset quality review, o Aqr, è una revisione della qualità degli attivi delle banche tramite un vero e proprio check-up sui loro bilanci. È stata condotta a partire dal 2013, in vista degli stress test dell’ottobre 2014. Non è stata indolore, perché ha costretto una serie di banche, soprattutto le banche popolari (le maggiori, perché l’esame non ha coinvolto quelle con attivo inferiore ai 30 miliardi di euro), ad aumentare il tasso di copertura dei crediti deteriorati, una misura che “esprime il rapporto tra i fondi complessivamente accumulati per fare fronte alle perdite su crediti e il totale dei crediti che hanno evidenziato qualche stato di patologia, data la difficoltà del prenditore nel restituire puntualmente i debiti contratti” (definizione da Lavoce.info). Per rendere l’idea, le sofferenze devono avere una copertura del 60%, gli incagli del 20-25%, i titoli in bonis solo dell’1 per cento. Quello che è successo dopo l’Aqr lo sintetizza una tabella elaborata nel gennaio 2015 dalla società di consulenza e revisione Pwc.
fonte: Pwc. Per guardare la tabella ingrandita cliccare qui
Come si vede, istituti come Banco Popolare, Banca Popolare dell’Emilia-Romagna, Popolare Vicenza, Credito Valtellinese, Carige, Veneto Banca, Mps hanno tutti dovuto rivedere al rialzo il tasso di copertura dei crediti. Quello che è successo è stato duplice: in parte la Bce attraverso gli stress test ha riclassificato una serie di crediti da “in bonis” a sofferenze o incagli. Dall’altra ha fatto aumentare il livello di copertura, che non era omogeneo (per le sofferenze alcune banche si fermavano al 50%, altre, le maggiori, arrivavano al 65%). In sostanza, le banche hanno aumentato il livello di copertura e hanno delle posizioni finalmente confrontabili.
Il secondo tassello è quello della vigilanza sulle banche, passata a novembre alla Bce. «La Banca d’Italia cambia musica perché c’è stato l’intervento della Bce che in totale trasparenza le ha sollevate dal compito di vigilanza», spiega Fabio Bolognini, fondatore della società di consulenza finanziaria Linkerbiz e della piattaforma Workinvoice. Questo ha fatto superare molte resistenze che le banche opponevano a Bankitalia. «Quello che è cambiato – continua Bolognini – è che la vigilanza è passata al piano di sopra (alla Bce, ndr). La Banca d’Italia è stata sgravata da un compito che era delicato: una banca poteva dire che altri istituti avevano avuto un trattamento diverso, o che le regole erano più permissive in altri Paesi europei. Ora la vigilanza è passata alla Bce, che applica criteri comuni per tutte le banche dell’area euro».
Dopo l’Aqr della Bce, uno degli effetti è che si potranno trasferire più facilmente i crediti deteriorati. «Una barriera importante per la realizzazione della Bad Bank in Italia è stata sicuramente legata alle perdite che avrebbe causato per i bilanci bancari il trasferimento di non performing loan (Npl) a prezzi mercato», commenta Matteo Coppola, partner e managing director di The Boston Consulting Group Italia. «L’asset quality review (Aqr) ha fatto aumentare gli accantonamenti delle banche. Il gap tra il valore di libro e quello di mercato si è quindi ridotto. Questo potrebbe favorire un po’ di più il trasferimento di Npl a valori di mercato».
A favorire l’introduzione di una bad bank c’è poi uno scenario che è diverso rispetto a due anni fa. «È inoltre cambiato il contesto – continua Coppola – : un governo diverso, un sistema bancario appena uscito dal Comprehensive Assessment, la volontà anche europea di spingere per l’uscita dalla crisi». «Forse è il momento giusto – aggiunge – per dare uno scossone e fare una pulizia dei bilanci delle banche che potrebbe spingere l’economia almeno dalla parte dell’offerta di credito. Accanto a questo servirebbe comunque che si facessero le riforme strutturali, per far crescere anche la domanda di credito da parte delle imprese».
Perché conviene farla
Perché non lasciare che le banche vendano i propri crediti deteriorati sul mercato agli operatori specializzati e risolvano da sole il problema? La risposta sta nel prezzo a cui questi operatori comprano: nel caso delle sofferenze acquistano al 10-15% del valore originario. Le banche, che hanno fissato una copertura del 60%, attribuiscono invece all’asset un valore del 40 per cento, anche sulla base dell’esistenza di garanzie ipotecarie e personali. Il fatto è che, però, nessuno compra al 40%, anche perché gli operatori puntano sull’urgenza di disfarsi delle sofferenze da parte delle banche. Una bad bank come quella che sta operando in Spagna, che si è idata 15 anni di tempo per vendere gli asset in pancia, può quindi gestire le vendite in maniera ordinata (con annunci, soprattutto di tipo immobiliare, che vengono pubblicati con trasparenza sul sito del gestore Sareb) e senza sconti eccessivi.
Bad bank calderone o a comparti separati
Nel decidere se far partire o meno una bad bank molto dipende da quello che si va a costruire. «Ci si interroga da diverso tempo sulla necessità di fare una bad bank – commenta Domenico Torini, director Corporate Finance di Kpmg Italia – . O viene imposta, come accaduto in Spagna, o ha senso se c’è un obiettivo industriale sottostante. Spero che non sia una discarica, con le perdite che vengono scaricate sul sistema, ma che sia un contenitore di asset omogenei. Dovrebbero esserci categorie a tema, per esempio rivolte alle Pmi o alle banche in crisi, con certe caratteristiche, in modo da vedere un recupero in prospettiva. Dovrebbe avere anche un aspetto industriale e non solo finanziario». La necessità di ragionare per settori è un punto chiave anche per Coppola, di Bcg Italia.
Grandi contro piccoli
I primi a non volere un grande calderone sono le banche maggiori. Alcune di loro, ricorda Torini, ha già avviato dei programmi di dismissione ordinata delle sofferenze, per esempio creando dei veicoli appositi in cui far confluire asset da vendere a clienti storici. Una banca che ha già trovato il modo di vendere le sofferenze a un valore accettabile non ha insomma alcun interesse a finire in un contenitore in cui tutto si vende all’ingrosso.
Intesa e Unicredit hanno già avviato un programma di vendita costituendo un soggetto a cui hanno preso parte due partner finanziari, la casa d’investimenti Kkr (Kohlberg, Kravis, Roberts) e A&M, ovvero Alvarez & Marsal, la società statunitense che gestì la liquidazione di Lehman Brothers. In questo caso, però, non si è trattato di sofferenze ma di crediti verso un numero limitato di grandi aziende in difficoltà ma che si sarebbero potute risanare attraverso l’afflusso di nuova finanza e di un profondo cambiamento gestionale.
Il modello spagnolo
Quando si parla di bad bank di sistema gli esempi che vengono citati sono quelli irlandese e spagnolo. A Madrid, in particolare, ha ricostruito nei mesi scorsi Fabio Bolognini in un post ripreso da Linkiesta, è stato costituito il Frob (Fondo de Restructuración Ordenado Bancaria), un’istituzione interamente pubblica, dipendente dal ministero dell’Economia, con l’obiettivo di forzare i tempi del consolidamento del sistema bancario nazionale. In seguito è stata creata la vera bad bank, la Sareb, che ha messo mano seriamente al problema delle sofferenze. La Sareb è un’istituzione con una dotazione patrimoniale di 4,8 miliardi di euro (1,2 miliardi di euro di capitale più 3,6 miliardi di euro di prestiti subordinati) versata per il 45% dal Frob e per il 55% da 27 soggetti privati. Nell’ambito di questi ultimi, due dei maggiori gruppi bancari spagnoli (Santander e Caixa) detengono quasi il 30% del capitale totale. Viceversa, il Bbva risulta assente.
La caratteristiche principale della bad bank spagnola è che ha potuto fare affidamento sui fondi europeo. Nel luglio 2012 il governo spagnolo e la Commissione europea sottoscrissero un MoU (Memorandum of Understanding) che aprì la strada ad un intervento dell’Esm (European Stability Mechanism) per finanziarie la completa rimozione dall’attivo delle banche spagnole delle poste non più esigibili. A fronte di questo sostegno la Spagna si impegnò a realizzare profonde riforme nel sistema economico e finanziario. L’Esm fu autorizzato a intervenire fino a un massimo di 100 miliardi di euro e l’esborso effettivo fu di 41,3 miliardi, con un prestito al Frob a 15 anni da restituire senza interessi. Le banche spagnole furono poi sottoposte a stress test e suddivise in quattro gruppi. La bad bank poté gestire gli asset degli istituti già nazionalizzati (gruppo 1), e delle banche con gravi problemi patrimoniali e incapaci di farvi fronte (gruppo 2), che rappresentano in termini di attivo poco più del 20% dell’intero sistema.
«Una Bad Bank consentirebbe di ripulire i bilanci delle banche dalla zavorra degli Npl – commenta Coppola – . In Spagna (e con l’aiuto pubblico) è stata realizzata tre anni fa una Bad Bank di sistema e questo è anche il motivo per cui le banche spagnole sono uscite bene dal recente esercizio di stress test. Le banche italiane invece non hanno sostanzialmente ricevuto ad oggi aiuti pubblici».
I modelli alternativi
C’è però un problema: Spagna e Irlanda ricevettero i fondi europei nel contesto di un intervento della Troika, in cambio dell’impegno a fare riforme in modo tassativo. Sono i due casi in cui la Troika (formata da Commissione europea, Bce e Fmi) si è mossa meglio, in confronto a quanto fatto in Grecia e Portogallo, come ha ricostruito un’analisi accurata dell’istituto Bruegel di Bruxelles. Ottenere finanziamenti e garanzie europee al di fuori di un intervento della Troika non sembra possibile. Per questo, ha evidenziato Federico Fubini su la Repubblica, le strade che potrebbe seguire il governo Renzi sono diverse, di tre tipi.
Nella prima ipotesi «viene creata una società-veicolo che emette titoli di debito sul mercato, coperti da una garanzia pubblica a favore di chi investe in essi. Con i fondi raccolti, la società-veicolo acquisterebbe i crediti deteriorati delle banche a prezzi scontati e li gestirebbe sperando alla fine di ottenere un profitto. In caso di perdite, scatterebbe la garanzia pubblica per indennizzare chi ha investito. In caso di profitto, lo Stato viene pagato per avere offerto il servizio di quella stessa garanzia».
La seconda ipotesi, continua Fubini, viene dal centro studi Astrid: inserire le sofferenze bancarie in pacchetti di titoli che poi potrebbe acquistare la Bce nei suoi nuovi interventi, sempre con una garanzia dello Stato italiano in caso di perdite.
La terza via che fa trapelare Padoan, quando parla di un accordo da fare con Bruxelles sugli aiuti di Stato, è quella di un sistema di sgravi fiscali per facilitare l’uscita delle sofferenze dalle banche.
In tutti i casi rimane il tema dell’impatto delle eventuali uscite pubbliche sui conti pubblici. Per cui il punto dirimente è capire se le perdite andrebbero a pesare sul rapporto deficit/Pil, che come noto non può sforare il 3 per cento, e l’Italia è al limite.
Che cosa cambia per il credito
Se i benefici per le banche di togliersi di mezzo la montagna di sofferenze sono evidenti, imprese e famiglie avrebbero un accesso al credito più semplice? O in altri termini, si potrebbe svoltare dopo che negli ultimi due anni il credito erogato è sceso di 60 miliardi? La risposta è generalmente positiva, perché gli Npl sono stati il vero freno dell’erogazione del credito, ma non è scontata. In parte dipenderà da come funzionerà il nuovo contenitore di crediti deteriorati. «Se la bad band è solo con garanzia non affluisce liquidità – spiega Torini di Kpmg -. Quello che si ottiene è che si libera in parte il capitale impiegato per la copertura delle sofferenze. Se la bad bank invece non si limita alle garanzie ma paga i crediti, ci sarà anche più liquidità».
La buona notizia, aggiunge Torini, è che oggi il problema delle banche non è tanto di liquidità quanto di capitale e la riduzione dell’incertezza permette di liberarne molto. La cattiva notizia è che le banche oggi paralizzate, per cui non è bene fare troppo affidamento sulla ripresa del credito. Lo stesso quantitative easing, aggiunge Torini, non è detto che avrà effetti su questo fronte. «Il Qe ha poca attinenza con l’economia reale – commenta -. Non si riduce il profilo di rischio delle banche, per le quali oggi ogni credito è visto come una minaccia. Lo scenario cambierebbe se le imprese avessero accesso diretto alla liquidità immessa dalla Bce attraverso i bond. Oggi le banche sono avverse al rischio e qualsiasi cosa è vista in negativo, mentre l’imprenditore è ottimista per natura».