Amazon e gli altri campioni dell’e-commerce sono da tempo diventati una cosa seria, soprattutto negli Stati Uniti e nel Regno Unito. Se inizialmente a preoccuparsi sono state le librerie (i negozi di musica erano già in declino dai tempi di Napster) e i negozi di elettronica di consumo, man mano la minaccia si è estesa a tutte le categorie, dagli shop di calzature a quelli del fast fashion. Per ora ostentano tranquillità, rispetto all’e-commerce, i supermercati alimentari, ma il discorso è diverso per i centri commerciali.
Come ha ricostruito un servizio del Washington Post, la questione di come i “mall” possano reagire di fronte all’offensiva del commercio elettronico è molto sentita. Il quotidiano ha preso ad esempio il rinnovato shopping center Westfield Montgomery, nel Maryland, di uno svluppatore con sede centrale in Australia, i cui centri sono considerati delle pietre miliari del commercio degli ultimi anni. Il più noto è probabilmente il Westfield Stratford di Londra, aperto per i Giochi del 2012 e adiacente al Villaggio olimpico. La stessa società aprirà un grande centro commerciale a Linate, in partnership con Percassi, nel 2017-2018.
Nel caso del Westfield Montgomery le contromisure all’avanzata del commercio elettronico sono state di cinque tipi.
1) Districting: ovvero, creare dei distretti. Fino a oggi una delle strategie più diffuse dai centri commerciali era di disperdere intenzionalmente i negozi simili attraverso la galleria commerciale. In altre parole, si mettevano appositamente dei marchi simili, come Zara e H&M, o Nike e Adidas, in posizioni molto distanti, in modo che chi era interessato a quella categoria di prodotti attraversasse tutto il mall e magari si fermasse nei negozi davanti ai quali passava. Ora il cambio di rotta è completo: tutti i marchi simili sono raggruppati in zone delimitate, perché diventa fondamentale non far perdere tempo ai clienti; altrimenti la tentazione di comprare online può tornare. A ben pensarci è un ritorno a uno stile di commercio che è sempre esistito, per esempio nelle vie commerciali medievali. Oltre che negozi simili, la logica del “distretto” si applica anche ai servizi: per esempio può avere un senso affiancare a un’area per il baby sitting una serie di negozi dedicati vestiti per l’infanzia.
Un esempio di raggruppamento di negozi per distretti nel centro commerciale Westfield Montgomery (fonte: Washington Post)
2) Ristorazione di qualità. Nei centri commerciali negli ultiltmi anni le food court hanno assunto un’importanza sempre maggiore, anche in tempi di crisi. La strategia dei nuovi centri commerciali è di alzare la qualità della ristorazione presente, rispetto alla classica offerta di fast food (e junk food). Lo scopo è cambiarne la funzione: da luoghi in cui si butta giù qualcosa già che si è nel mall a veri luoghi di appuntamento, dove i ragazzi possano anche “accamparsi”, magari con i loro computer portatli. Nel caso del Westfield Montgomery ci sono catene della categoria “fast-casual” (a metà strada tra un classico fast food e un ristorante con servizio al tavolo tradizionale), con sushi, ristoranti di pesce (Lobster Me) e cucina mediterranea (Cava Grill).
Esempio di ristorazione nel centro commerciale Bikini Berlini (fonte: Kikilab)
3) Innovazione nei parcheggi. Per far risparmiare tempo si può partire dai parcheggi. Nel Westfield di Montgomery sono state create delle guide luminose con luci attivate da sensori che guidano i consumatori fino agli spazi vuoti. Sono inoltre state aggiunte molte scale mobili, più veloci degli ascensori. La società di sviluppo e gestione di shopping center aggiunge anche di avere ben presente che nel giro di pochi anni ci saranno auto che si guidano da sole e che lasceranno i clienti per tornarsene a casa (o negli spazi pubblici, nel caso del car sharing), per cui i posti per parcheggi dovrebbero diminuire nelle prossime realizzazioni. Sempre venendo incontro alla necessità di non far perdere tempo, sono state aggiunge scale mobili in tutto il centro.
Le guide luminoseall’interno del Westfield Montgomery (fonte: Washington Post)
4) Rendere ogni centro unico. Uno dei modi per combattere la concorrenza dell’e-commerce, secondo diversi gestori di mall, è quello di rendere la visita a un centro commerciale un’esperienza non replicabile e memorabile. Per questo è diventato centrale creare dei luoghi che abbiano caratteristiche distintive da tutti gli altri. In altri termini, per gli operatori significa mettere più impegno nel creare stili completamente diversi da un centro all’altro, a costo di rinunciare alle economie di scala che si avrebbero avute usando gli stessi materiali e lo stesso design.
5) Lasciare che la gente si connetta. Molte delle poltrone e sedie nei centri commerciali ora hanno prese elettriche e porte Usb, per permettere ai clienti di ricaricare i cellulari, i tablet e altri dispositivi. Westfield, spiega il Washington Post, sta lavorando anche per sviluppare un sistema di wi-fi che permetta di far collegare i clienti fin dal parcheggio. Diverse ricerche hanno mostrato che i consumatori sono oggi “omnichannel shopper”, cioè amano comprare sia online che nei negozi fisici. Rendere semplice per i clienti usare i loro dispositivi nei centri commerciali dovrebbe quindi permettere ai clienti di mescolare le esperienze di acquisto fisiche e digitali, magari usando i coupon sugli smartphone, comparando i prezzi o mettendo sui social network le foto dei selfie fatti nei camerini.
Ma per i centri commerciali è davvero l’e-commerce il pericolo principale? E quali sono gli altri modi per non far scappare i consumatori da questi posti? «I mall americani sono sicuramente in crisi e il primo imputato è Internet, e in particolare l’e-commerce – commenta a Linkiesta Marco Cuppini, direttore centro studi e comunicazione at GS1 Italy/Indicod-Ecr -. Ma non è certo l’unico. Quella che viene messa in crisi è la medietà del centro commerciale, che all’origine è nato come uno spazio in cui si poteva vendere tutto sotto lo stesso tetto. Il concetto era il largo consumo per tutti e prezzi bassi. Tutte questo è entrato in crisi, perché oggi è più difficile offrire qualcosa che vada bene a tutti, a causa della maggiore segmentazione della società».
In questa fuga dalla “medianità” vanno letti sia il lavoro sulla ristorazione, con il passaggio dalla semplice “food court” alla più sofisticata “dining terrace” sia la volontà di differenziare ogni singolo centro commerciale.
Su questo fronte, spiega Fabrizio Valente, partner fondatore di Kiki Lab-Ebeltoft Italy, è esemplare il lavoro che sta facendo la società di progettazione di Singapore Food Republic. «È un soggetto – dice a Linkiesta – specializzato nel creare centri commerciali con immagine e ambientazione unici. Si passa da uno in stile retrò, che ricorda una vecchia biblioteca europea, a uno completamente futuristico».
Un’altra chiave per differenziarsi, aggiunge, è introdurre dei negozi indipendenti locali accanto alle solite catene diffuse a livello nazionale o internazionale. Una realizzazione recente ed esemplificativa è il Bikini Berlin, nella capitale tedesca, che sarà presentato il 17 marzo a Milano, durante il convegno di Kikilab dedicato alla presentazione della ricerca internazionale Retail Innovations 10. «Il Bikini – spiega Valente – è un centro commerciale urbano di nuova generazione. Segue l’attuale tendenza consistente nel realizzare centri un po’ più piccoli, in location meno periferiche, costruiti recuperando aree dismesse e inserendo un mix di insegne più o meno affermate. Nel Bikini Berlin, che ha una superficie di poco più di 20mila metri quadrati, su 80 insegne 20 sono pop up store (negozi temporanei, ndr), con contratti da 3 a 6 mesi. Questo crea la possibilità per i centri commerciali di evolversi».
I negozi temporanei nel centro commerciale Bikini Berlin (fonte: Kikilab)
La tendenza verso una gestione modulare e rapidamente modificabile trova la sua massima espressione nel centro Shoreditch di Londra: un’area dismessa delle ferrovie britanniche che ospita un mini centro commerciale fatto solo di container. Ci sono anche marchi commerciali, come Nike, ma per la maggior parte si tratta di start up di giovani.
Per Valente l’altra strada da seguire è quella di rivitalizzarsi agganciandosi molto di più al tempo libero. A partire dalle palestre, come nel caso di Canary Wharf, sempre a Londra, che ospita un grande centro sportivo destinato soprattutto ai pendolari. Fino ad arrivare, come nel caso di un mall fuori Parigi, ad ospitare un parco avventura per ragazzi. Il “leisure” tocca poi le massime punte negli Emirati Arabi, dove sono celebri gli shopping center che ospitano acquari giganteschi, piste da pattinaggio e da sci. A tutte queste innovazioni è dedicato il World Retail Congress, che per la prima volta si svolgerà in Italia (Roma 8-10 settembre), di cui Kiki Lab è Official Italian Advisory Partner.
Alla base della necessità di rinnovamento dei mall americani c’è una parola che sta diventando un’ossessione per chi si occupa di marketing: millennial. Sono i ragazzi nati dopo il 1980, che negli Usa si stima peseranno sul 30% degli acquisti totali. «Negli Stati Uniti sono molti di più e con capacità di spesa molto maggiore rispetto all’Italia e all’Europa, società più vecchie e con una disoccupazione giovanile molto superiore», nota Cuppini.
Anche le difficoltà possono però tramutarsi in occasioni. «Tra le aree ibride che si stanno sviluppando – aggiunge Valente – ci sono gli spazi di co-working all’interno dei negozi. Un gruppo di Tlc tedesco ha creato uno spazio, nel suo negozio principale, in cui i ragazzi possono condividere uno spazio per lavorare. Il tema del lavoro è infatto un valore centrale» e comunicare che lo ha a cuore può essere una mossa di comunicazione vincente.
C’è infine, come nell’esempio del Westfield Montgomery, spazio per una serie di accortezze tecnologiche. «Certamente è importante l’incrocio con i social media», sottolinea Valente, che cita esempi di come i punti vendita possano rendersi attrattivi. «Un centro commerciale inglese ogni mattina posta sul sito immagini attuali di vip, cantanti, attrici, altri personaggi del mondo dello spettacolo, ed evidenzia come sono vestiti. In modo automatico, attraverso un software, è in grado di dire dove si trovano, nei vari negozi del centro, capi simili a quelli dei personaggi famosi». Il centro Qwartz, in Francia, ha invece puntato molto sulla tecnologia, inserendo una serie di chioschi che vanno su internet e permettono di comprare prodotti di diverse marche.
Sebbene ci sia una sorta di concorrenza interna, «la parte delle tecnologie e connessioni è ineludibile – commenta Cuppini -. Perché il consumatore non fa più differenza tra i vari canali. Da una nostra ricerca è emerso che il consumatore non è più propenso al fisico o al digitale. Li vuole entrambi, a seconda dell’occasione. Fenomeni come lo showrooming (il vedere i prodotti nel negozio fisico per poi comprarli a meno online, ndr) può essere gestito in molti modi. Per esempio, con degli addetti che spiegano ai clienti le differenze tra i prodotti messi a confronto online.
Inoltre si può fare il click and collect (l’ordine online di prodotti che poi si ritirano in negozio, ndr).
L’importante, conclude il direttore di GS1 Italy/Indicod-Ecr, l’importante è non essere catastrofici. «Smettiamo di dire che Amazon ha ammazzato il commercio. Dopo Amazon c’è stato un fiorire di nuove formule. Il problema è l’immobilità. Se ci sono reazioni, il consumatore non è granitico nel suo comportamento, le possibilità sono molte».