Per tre anni gli occhi di tutti sono stati chiusi. Dal 2011 al dicembre 2014 nessuno tra i politici italiani all’Europarlamento, al Parlamento e nei ministeri, ma neanche tra i burocrati, i produttori e i distributori sembra aver visto un regolamento europeo che cambiava a fondo le regole sulle etichette dei prodotti. Così, quando il 13 dicembre abbiamo recepito – in maniera automatica – il Regolamento 1169/2011 ci siamo ritrovati con una norma che non prevede più l’obbligo di indicazione dello stabilimento di produzione. Se i produttori lo volessero, nessun consumatore potrebbe quindi più sapere se una mozzarella di un marchio italiano sia stata fabbricata in Italia o in Polonia. Né se un panettone di una private label di un supermercato sia stato prodotto da un’azienda che vende gli stessi dolci al doppio del prezzo col proprio brand.
Tra i pochissimi occhi che si sono aperti ci sono queli di Raffaele Brogna, blogger che da qualche anno anima il sito “Io leggo l’etichetta”. Un avvocato amico lo scorso maggio gli segnala che l’attività di base del suo sito, indicare le aziende che producono i beni delle marche private dei supermercati, sarebbe stata compromessa dal nuovo regolamento. Da lì, spiega Brogna a Linkiesta, comincia una petizione per chiedere di intervenire prima del recepimento della normativa. Il 2 dicembre la petizione viene spedita al governo. Le firme cominciano ad arrivare (oggi sono poco più di 21mila) ma dalle istituzioni non arrivano reazioni. Poi si passa al coinvolgimento delle principali società distributrici e di una novantina di produttori. Forse un po’ a sorpresa, le adesioni arrivano da entrambe le parti («Segno che anche un cittadino senza nessuno dietro può cambiare le cose», commenta Brogna). Tra i più attivi c’è Conad, che nei giorni scorsi ha comprato una pagina di pubblicità per dire che continuerà a inserire nei propri prodotti a marchio le indicazioni sugli stabilimenti di produzione. Ma figurano anche Unes (la prima insegna a comprare paagine di pubblicità), Coop, Selex, Simply, e marchi stranieri come Auchan ed Eurospin. In totale aderisce la metà delle insegne chiamate in causa. Tra gli assenti più noti, Esselunga, Carrefour e Lidl. Anche tra i produttori si sono fatte sentire le voci di appoggio, prima fra tutte quella di Vito Gulli, presidente di Conserve Generali.
Il tam tam ha avuto il suo effetto. Il 21 dicembre il ministro delle Politiche agricole, alimentari e forestali, Maurizio Martina, rompe il silenzio con un tweet in cui annucia di aver chiesto al ministero dello Sviluppo economico (competente sul tema della trasformazione, mentre al Mipaaf spetta l’origine degli alimenti) di ripristinare l’obbligo di indicazione dello stabilimento.
Il 15 gennaio in un convegno preannuncia un intervento legislativo. Di che tipo? Dal Mipaaf fanno sapere che la materia è allo studio dei tecnici del governo, quindi non si può ancora sapere se ci sarà un decreto, un disegno di legge o un collegato alla prossima legge europea (la legge che ogni anno recepisce le norme europee), né sapere novità sui tempi. Quello che è certo è che la lettera di Martina al ministro dello Sviluppo economico Federica Guidi ha chiesto di intervenire (come chiedeva la petizione) sia in sede italiana che europea. Una volta che ci sarà una bozza, infatti, andrà presentata a Bruxelles per un parere preventivo, che eviti successive procedure di infrazione. Sempre per questo motivo, aggiungono dal Mipaaf, è stato portato avanti un questionario a 24mila persone, con 11 domande sull’etichetta. Lo scopo? «Quando si presentano norme più restrittive rispetto ai regolamenti, la Ue chiede di dimostrare che la maggioranza dei cittadini è d’accordo, e questo finora è sempre stato un limite dell’Italia nel difendere il Made in…», rispondono.
Un ok dall’Ue era arrivato 23 anni fa, quando fu presentata dall’Italia la legge 109/1992 che effettivamente prevedeva l’indicazione anche dello stabilimento di produzione, integrando il precedente regolamento Ue. La legge non è mai stata abrogata, ma essendo legata a un regolamento decaduto, è anch’essa decaduta.
Chi ci guadagna
Quando si tratta di indicare chi guadagna dal nuovo regolamento, nessuno dei soggetti impegnati nella battaglia ha esitazione: le multinazionali del food, che hanno stabilimenti in più Paesi ma marchi con forti tradizioni in determinate nazioni. Oggi l’etichetta di una mozzarella di un marchio italiano appartenente a una multinazionale francese, spiega Gasbarrino, deve riportare se la produzione avviene in Italia. «Domani potrebbe lasciare solo la sede legale, italiana, e omettere che la produzione avviene in Polonia».
«Se una multinazionale compera un marchio italiano, ha tutto l’interesse a produrre nei Paesi dove costa meno e a non farlo sapere», gli fa eco Vito Gulli. Che però invita a non ragionare per schematismi: «Io stesso con la mia azienda avrei un vantaggio dal nuovo regolamento», aggiunge il presidente di Generale Conserve, che produce tonno, principalmente con il marchio Asdomar negli stabilimenti in Sardegna e in Portogallo. «Ma sono contrario – aggiunge – perché tutto verrebbe a essere mistificato. I politici hanno parlato, spesso a vanvera, di Italian sounding (la produzione di prodotti simili a quelli italiani da parte di società straniere, ndr), un fenomeno che vale 60 miliardi di euro. Ora questo viene legalizzato».
Gulli invita a evitare i “trabocchetti dei lobbisti”. «Dicono che non è vero che non c’è più l’obbligo di indicare lo stabilimento, perché c’è un numero identificativo (il bollo sanitario, ndr). Ma questo non risolve il tema della trasparenza per i consumatori. Poi dirà che hanno già stampato le nuove etichette. Pazienza, si darà loro il tempo per stamparne di nuove».
Se il fronte dei produttori è spaccato, lo stesso vale per le catene della grande distribuzione organizzata. «Purtroppo non tutti i distributori sono d’accordo – spiega Gasbarrino -. Ho sollecitato Federdistribuzione a prendere posizione sul tema, ma mi hanno risposto che non potevano perché c’era dissenso. Ma se anche un gruppo multinazionale come Auchan ha firmato la petizione per reintrodurre l’obbligo di etichetta, non vedo perché gli altri siano contrari». Un’azienda di distribuzione, spiega l’ad di Unes, potrebbe avere dei vantaggi dal comprare prodotti ovunque e non indicare dove sono fabbricati, specialmente per i propri prodotti a marca privata.
Il Made in Italy ha tutto da perdere
Nel 1992 la legge italiana aveva lo scopo di difendere le produzioni nazionali, ponendosi in contrasto con la visione dei Paesi nordici, da sempre contrari a eccessive tutele per i prodotti tipici e favorevoli alla produzione alimentare industriale su larga scala. Oggi il copione si ripete. Per questo per Vito Gulli, la questione della trasparenza si lega a quella della tenuta del sistema Paese: «Perché l’Italia si possa riprendere, bisogna che sia venduto cibo italiano, non solo quello che vendo io. Il paradosso è che nell’anno di Expo questo lo dice il 100% dei politici, poi si permette ad alcuni di fare i furbi. Non è infatti pensabile che il consumatore si accorga dell’Italian sounding se non ha gli strumenti».
Se il fatto che nessuno abbia mosso un dito prima dell’introduzione del regolamento Ue sia dovuto a ragioni tecniche (dimenticanza) o politiche non è chiaro. «Quello che posso dire – spiega Vito Gulli – è che in un convegno ho sentito dire a un funzionario del ministero dell’Economia che non c’era ragione di distinguere tra prodotti italiani e stranieri se non si trattava di Dop e Igp. Per fortuna è intervenuta contro di lui una funzionaria del ministero della Salute, prima che intervenissi io». Secondo Mario Gasbarrino, ad della catena di supermercati Unes / U2, la questione è più semplice: «Finché mandiamo in Europa gli scarti della politica e non capiamo che l’Europa oggi conta più dei singoli Stati, questo è quello che otteniamo: che nessuno si sia accorto di quello che stava succedendo. Cioè una controriforma». La vittoria, insomma, è stata lasciata ai Paesi del Nord Europa.
Uno dei motivi per cui il Made in Italy trarrebbe vantaggi dalla trasparenza, è che «nel consumo – argomenta Gulli – c’è un fattore di carattere socio-economico: i consumatori che vogliono dare una spinta all’economia italiana possono farlo leggendo l’etichetta». «Le scelte etiche negli acquisti sono diffuse – aggiunge Raffaele Brogna -. Molti consumatori scelgono ad esempio di comprare solo prodotti del Sud Italia per avvantaggiare la produzione del Meridione».
Le origini nell’etichetta
Il nuovo regolamento europeo sull’etichettatura non va demonizzato eccessivamente. Prevede anche numerose novità in favore dei consumatori, le più importanti delle quali sono le dimensioni minime delle scritte sulle etichette e l’indicazione dell’origine degli alimenti (che è cosa diversa dallo stabilimento di produzione). Si potrà, quindi, sapere, se un olio è effettivamente prodotto con olive italiane o estere. Su questo fronte, se i clienti hanno solo vantaggi, i produttori si trovano spiazzati, perché l’Italia è soprattutto un Paese trasformatore. La pasta per esempio, utilizza grano per il 50-60% circa importato e si distingue dagli altri per le ricette e le modalità di cottura. Con il nuovo regolamento l’enfasi andrebbe tutta sull’origine agricola e non sul luogo di produzione. Andrebbe, perché il condizionale è d’obbligo. «L’indicazione di origine potrà dare chiarezza – spiega Gasbarrino di Unes -. Ma di fatto su questo tema non c’è un regolamento e quindi non c’è un’applicazione immediata, anche perché sarebbe complicata: non è facile inserire l’origine di tutti gli alimenti in prodotti che hanno una ventina di ingredienti. Viene comunicato come un fatto positivo del regolamento ma si omette un’informazione fondamentale: che nessuno sa quando si applicherà».