Unesco, quando salvare il passato è formare il presente

Unesco, quando salvare il passato è formare il presente

L’Italia possiede il 50% del patrimonio artistico mondiale. A volte è il 75% (Vittorio Sgarbi), a volte è “solo” il 25% (Nicola Zingaretti). Lo si sente ripetere spesso (la prima frase, poi, è finita anche in uno spot con la voce di Berlusconi), ma sono affermazioni prive di fondamento. Non esiste una classificazione del patrimonio artistico mondiale, e non ci sono dati cui far riferimento. L’unico organismo che se ne occupa, l’Unesco, vede l’Italia al primo posto, con 49 siti su 1007 (subito dopo arriva la Francia) e conta il 5% del patrimonio artistico. Non è poco, dal momento che è il Paese che conta più siti tutelati (49 su 962), e ci posiziona sopra la Francia, un primato di cui si può andare orgogliosi.

Cosa significhi possedere questo patrimonio è considerato, nella maggior parte dei casi, una fortuna. Il marchio dell’Unesco, l’agenzia dell’Onu che individua e tutela i beni artistici e naturali del mondo, porta con sé una serie di finanziamenti (sia pubblici che privati) un consistente afflusso di turisti, con conseguenti benefici per il settore, e nuovi posti di lavoro. Ci sono anche aspetti negativi. Vengono sollevati in diverse occasioni. Il turismo, ad esempio, può diventare eccessivo, e a lungo andare diventare un problema per l’area che si vuole tutelare. È il caso di Angkor Wat, in Cambogia, entrata a far parte della World Heritage List, la lista dei siti da preservare, nel 1992. Si tratta di un complesso di palazzi meravigliosi, che ricevono ogni anno due milioni di turisti. Il paese vicino, Siem Riep, si è trasformato nel giro di pochi anni in un agglomerato di alberghi, parcheggi e ristoranti. L’esplosione non era stata prevista, almeno in questi termini. La stessa organizzazione, ha ammesso, è stata colta “di sorpresa”.

La miniera d’argento di Iwami Ginzan, in Giappone, è il caso opposto. È un sito che si trova sull’isola di Honshu, che conobbe una grande fortuna nel 1600. Col tempo la sua gloria decadde, fino a che la miniera non chiuse nel 1923. Iwami nel frattempo era diventata una città fantasma. Eppure, in seguito a una forte pressione da parte di Tokyo, nel 2007 Iwami entra a far parte del novero dei siti protetti. È sulla Lista, insieme alle Piramidi e al Campo dei Miracoli. Le conseguenze sono impreviste: l’anno successivo Iwami divenne meta per un milione di turisti, in un contesto privo delle minime attrezzature per l’accoglienza dei turisti. Molti, poi, che si aspettavano di scorgere meraviglie all’altezza del Taj Mahal, se ne sono andati scontenti.

La vaghezza dei criteri di selezione permette molta libertà ai membri della commissione Unesco

Il primo problema che si incontra – apre poi a molti altri, più complessi, su cui si indagherà – è il processo di iscrizione alla Lista dell’Unesco. Non è l’organizzazione che sceglie i siti, ma sono gli Stati che sottopongono le candidature. Nel caso specifico di Iwami, è stato l’intervento di un facoltoso uomo d’affari, Toshiro Nakamura, a spingere le autorità di Tokyo a intraprendere il processo.

Dal canto suo, l’Unesco vigila e decide, anche in modo severo, sulla validità della candidatura. I criteri per essere ammessi sono dieci: se un sito (o una manifestazione culturale) ne soddisfa almeno uno, allora è fatta. (Fino al 2004 erano divisi: sei culturali e quattro naturali). La vaghezza con cui sono espressi consente una certa libertà di movimento da parte della commissione. Un sito, ad esempio, deve “rappresentare un capolavoro del genio creativo dell’uomo”. Campo dei Miracoli, a occhio, lo è senza dubbio. Oppure deve “essere testimonianza unica o eccezionale di una tradizione culturale o di una civiltà vivente o scomparsa”. Già qui la definizione è più scivolosa. In ogni caso, deve “soddisfare condizioni di integrità e/o autenticità”, con un sistema di “tutela e gestione” in grado di garantirne la salvaguardia. Il “valore universale eccezionale” di un elemento naturale o culturale viene spiegato, nelle linee guida per la commissione, come “un significato culturale e/o naturale così eccezionale da trascendere i confini nazionali e di essere di importanza comune per le generazioni presenti e future di tutta l’umanità”. Molto bello, ma poco chiaro.

Già da qui si intuisce che il compito che l’Unesco si è prefissato incontra difficoltà di un certo rilievo. Come spiega Benno Boer, advisor del settore ecologico, spesso «si presenta una serie di implicazioni legali e finanziarie, complessità tecniche e questioni, culturali, politiche, sociali, economiche, di diritti umani, e religiose». Non è semplice districarsi.

Va aggiunto che, al di fuori della moral suasion, l’Unesco non possiede armi per difendere il patrimonio sottoposto alla sua tutela. Il compito è demandato agli Stati. L’unica sanzione possibile è la cancellazione dalla lista. Più che un disonore, è anche la perdita, di «circa quattro milioni di dollari messi a disposizione dei Paesi che hanno siti iscritti». Ma non può nulla, ad esempio, contro le devastazioni della guerra. Come ha fatto a resistere in tutti questi anni, non è semplice capirlo.

Le rovine di Angkor Wat, Cambogia (Christoph, Afp, Getty Images)

Iwami Ginzan, Giappone. Diventa sito Unesco nel 2007 (Immagine: Wikipedia)

In origine l’Unesco – sorto nel 1945, pochi giorni dopo l’istituzione dell’Onu – aveva, da statuto, un obiettivo diverso. Doveva “contribuire alla pace e alla sicurezza, promuovendo la collaborazione tra le nazioni attraverso l’istruzione, la scienza e la cultura per acquisire un rispetto universale verso la giustizia, la legge e i diritti umani”. Solo verso la fine degli anni ’50, ha raffinato e modificato in modo sostanziale i propri obiettivi, concentrandosi sul mantenimento e sulla preservazione del patrimonio culturale.

La svolta è avvenuta in occasione della costruzione della diga di Assuan, lungo il Nilo. A opera completata, si sarebbe creato un bacino di acqua che avrebbe sommerso decine di siti archeologici, tra i quali il complesso di Abu Simbel. Nel 1960 l’Unesco lanciò una campagna per salvare i manufatti, cui parteciparono diversi Paesi. I manufatti vennero smontati, trasportati più a valle e ricostruiti. Alcuni furono regalati ai Paesi che avevano preso parte alle operazioni. Da qui, l’Unesco si dedicò con costanza al salvataggio e alla conservazione dei beni culturali. Fu un cambiamento di pelle che culminò nella Convenzione per la Conservazione del Patrimonio Culturale e Naturale del mondo, nel 1972. Poco dopo, nel 1978, è seguita la World Heritage List, la Lista, di cui si è parlato, che nel 2003 venne estesa a comprendere anche le manifestazioni culturali intangibili, come le lingue, le tradizioni popolari viventi, la trasmissione orale, le storie. A questo livello, il problema del turismo in eccesso appare un felice ricordo.

Non è chiaro cosa si intenda per patrimonio culturale. Non è chiaro nemmeno cosa si intenda per cultura

L’obiettivo dell’Unesco, come si è detto, è la preservazione del patrimonio culturale. Come si è già anticipato, resta complicato definire in cosa consista il “patrimonio culturale”. O ancora, di più, resta da capire cosa intenda l’Unesco per “cultura”. È un argomento molto complesso, che attiene più ad analisi di filosofi e antropologi. Ci ha provato Thomas Hylland Eriksen, professore all’Università di Oslo, che ha studiato il report Unesco Our Creative Diversity, del 1995, da più parti considerato una sorta di manifesto del pensiero dell’agenzia delle Nazioni Unite. «È caratterizzato da una certa indecisione sull’uso del concetto di cultura», scrive . In gran parte del testo, «la cultura è concettualizzata come qualcosa che può essere pluralizzato con facilità, che appartiene a un gruppo di persone, che è associata alle loro eredità e alle loro “radici”». Al tempo stesso, però, «si sottolinea che le influenze esterne, la globalizzazione, la creolizzazione sono tutti fenomeni culturali». Insomma, il confine non è chiaro. Al centro di questa tensione c’è la volontà di accomodare distinte scuole di pensiero antropologiche, senza dubbio presenti in parti più o meno equivalenti al tavolo di stesura del report.

Le contraddizioni non finiscono qui: «in generale prevale un’ideologia basata sul relativismo culturale, in cui le culture sono entità limitate, con propri sistemi di valori e pratiche», per cui «si scrive che “queste distinzioni devono essere incoraggiate”», assecondando «il diritto dei popoli a un’auto-determinazione culturale». Eppure si fa riferimento anche alla necessità di stabilire «delle etiche globali», valide per tutti. Le due cose sono inconciliabili, ed è evidente. «Se le minoranze (e, come è da presumere, anche le maggioranze) condividono sistemi di valore unici, ci si può aspettare che questi “sistemi” diano istruzioni morali ai propri aderenti, e se questi “sistemi di valore” devono essere difesi dagli attacchi dell’individualismo moderno, una chiamata a un’etica globale sembra una richiesta eccessiva». Tutto insieme non ci può stare: difendere le culture, sì, ma solo alcune. E perché? E come si può chiedere alle diverse culture di partecipare a valori comuni? Sono problemi complessi. Ci si limiterà a sottolineare che l’Unesco è espressione di una cultura, e ne riflette, con un certo disagio, tutte le contraddizioni. Non è un caso che la maggioranza delle opere conservate siano chiese e palazzi, e che il simbolo (anche le piccole cose contano) sia la stilizzazione di un tempio greco, in cui le lettere della parola Unesco costituiscono le colonne.

Insomma, nella sua pretesa di stendere un piano teorico generale l’Unesco incontra diverse difficoltà, ma sono comprensibili, anche perché riassumono le incertezze di un mondo globalizzato. Il problema è che, sulla pratica, anche la nozione di “patrimonio culturale”, cioè quello che in inglese si definisce “heritage”, pone ancora più difficoltà.

“Per dirla in modo brutale, l’Unesco favorisce un tipo di diversità culturale che è sterilizzata e sicura, compatibile con i diritti umani moderni e l’individualismo occidentale”

Secondo il professor David Harrison, la nozione di patrimonio culturale è legata a un totem fondamentale, quello dell’autenticità. Il dibattito sui marmi del Partenone, ne è un esempio lampante: gira intorno al valore che viene dato a una serie di pietre che sono uniche, che sono “proprio quelle”, e cerca di stabilire chi sia il legittimo proprietario. «Lo stesso vale per il valore di un Rolex: se è vero, autentico, è alto. Mentre è bassissimo se falso, anche se il meccanismo funziona in modo del tutto uguale. Dare valore all’autenticità è un’abitudine, un modo di pensare importante per la cultura occidentale». Eppure, anche se è così saldo, quando si entra nel campo del “patrimonio culturale” si insegue una chimera. Pochissimi sono in grado di riconoscere se un quadro è vero o falso, pochi ricordano che ogni sito archeologico è una ricostruzione moderna, che ogni affresco ha subito un restauro con colori e materiali nuovi, che le statue greche antiche erano colorate, che le danze tipiche etniche sono vere e proprie recite, che lo stesso sito di Abu Simbel, monumento fondativo dell’Unesco, si trova da tutt’altra parte rispetto a dove era stato costruito. Cosa potrebbe renderlo meno autentico? Eppure è proprio in nome dell’autenticità che si lavora per preservare il patrimonio culturale.

Operai egiziani smontano la statua di Ramses ad Abu Simbel (Afp)

Le rovine di Pompei (Giorgio Cosulich, Getty Images)

A questo punto, la confusione è grande e serve un passo finale. La trae lo stesso Harrison: il patrimonio culturale, sia o meno autentico, «è il frutto di una selezione», come è dichiarato nei criteri stessi stabiliti dalla commissione dell’Unesco. «Ma ci sono delle domande: perché qualcosa dovrebbe essere considerato degno di essere trasmesso alle future generazioni? E chi se ne occupa? Chi pratica la selezione?» Quando si pongono queste domande, continua, «diventa chiaro che ciò che viene considerato come “il passato”, e il modo in cui viene ritratto e interpretato è un ingrediente cruciale nella formazione, continua, della percezione di quello che è il presente». Ci sono dentro tutti, dagli etnografi ai turisti. In mezzo, la riscrittura del presente: il passato è solo un’idea, e il modo in cui lo si conserva è la traduzione della volontà, anche del tutto bene intenzionata, di conservare uno status quo. O meglio, di dirigerlo. Come spiega a Linkiesta proprio il professor Eriksen, «Per dirla in modo brutale, l’Unesco favorisce un tipo di diversità culturale che è sterilizzata e sicura, compatibile con i diritti umani moderni e l’individualismo occidentale. Alla fine, potrebbe essere considerato una forma di differenza culturale superficiale e poco incisiva. Ma sotto un altro punto di vista, l’Unesco utilizza questa nozione di diversità culturale per dare potere alle minoranze e renderle in grado di entrare nel mondo moderno senza perdere il loro senso di sé e del passato. Certo, non è semplice». 

La cosa è diventata evidente nel 2010, quando Israele decise di definire “Patrimonio culturale nazionale” siti come la Grotta dei Patriarchi, Hebron, la Tomba di Rachele e Betlemme. La risposta dell’Unesco è stata immediata: ha posto sotto la propria tutela La Tomba dei Patriarchi e la Tomba di Rachele, dichiarandoli «parte integrante dei Territori Occupati». Isreale protestò a lungo. In ogni caso, ciò che appare chiaro è come l’appropriazione del patrimonio culturale (ma anche la sua manipolazione, la sua stessa definizione) sia un atto politico, culturale e identitario. Lo ha fatto Israele, lo ha fatto la Palestina.

E allora, da questo punto di vista, forse hanno ragione anche Zingaretti, Sgarbi, e Berlusconi. Le percentuali sul patrimonio culturale variano, il concetto fluttua, il passato diventa, a seconda delle politiche, un presente più o meno soffocante. Qui, come dice Robert Hewison, studioso del fenomeno del cultural heritage, “l’industria dell’eredità culturale” potrebbe, con i suoi modelli «sterlizzati di un passato ideale», finire per sostituire la storia. E il passato ingombrante non sarà solo il coccio che blocca la metropolitana di Roma. Ma la riscrittura inautentica, della propria identità.