Nel cuore dell’Europa c’è un paese che continua a far molto discutere. È l’Ungheria di Viktor Orbán, esempio di buon governo per alcuni, focolaio di rigurgiti fascisti per altri. Come stanno davvero le cose? Prima di avventurarci nella risposta a questa impegnativa domanda, è utile fare qualche passo indietro, agli esordi della crisi che continua a scuotere l’Europa.
L’Ungheria è stato uno dei primi paesi europei a sperimentare l’intreccio perverso tra crisi finanziaria, “aiuti” esterni e politiche di austerità. Già nel 2008, prima che si incominciasse a parlare insistentemente di “crisi dei debiti sovrani”, dei “salvataggi” della Troika, del “caso greco”, il Paese si era trovato in gravi difficoltà finanziarie, tanto da doversi rivolgere ad alcune istituzioni internazionali per scongiurare un inevitabile default.
Il finanziamento concesso da Fmi, Banca mondiale e Unione Europea fu di 25,1 miliardi di dollari, in cambio di impegni concreti da parte dell’allora governo socialista in tema di misure di austerità. Si trattò, come per altri casi successivi in Europa, di un accordo capestro, che finì per esasperare una popolazione già fortemente provata dai sacrifici degli anni precedenti, quelli richiesti a suo tempo per “entrare in Europa”. Politicamente, si preparò il terreno per il ritorno al governo della destra e per un’avanzata della destra estrema.
Viktor Orbán, che era stato già primo ministro tra il 1998 ed il 2002, vince trionfalmente le elezioni del 2010 col 52,7% dei suffragi, sfruttando a suo favore il forte malcontento dei cittadini. Il suo programma – un intreccio di populismo, autoritarismo e identitarismo – fa breccia, insomma, nel sentimento di una popolazione stremata da anni di crisi e austerità, confermando, peraltro, quanto sia stringente il rapporto tra disagio sociale e derive autoritarie nelle nostre società.
Ma in questa tornata elettorale c’è anche un altro dato che fa rumore: il 16,7% (47 seggi) del partito Jobbik, movimento di estrema destra antisemita, con ascendenze nella storia del fascismo nazionale, dall’ammiraglio Miklós Horthy alle Croci Frecciate. Jobbik (ufficialmente “Movimento per un’Ungheria Migliore”) è l’acronimo di Jobboldali Ifúsági Közöség, ovvero “Destra Comunitaria della Gioventù”. In verità si tratta di un gioco di parole, visto che il termine Jobb in lingua magiara può significare sia “bene” che “destra”.
Guardando all’età dei suoi dirigenti – ma il discorso può valere complessivamente per tutta la sua base militante -, questo movimento si presenta davvero come una comunità di giovani, capace di veicolare con maestria idee vecchie e vecchi pregiudizi attraverso i canali più moderni e sofisticati della comunicazione, dalla rete ai social network. Non solo. Lo spirito “comunitario” e giovanilistico del movimento è testimoniato anche – e soprattutto – dalle attività collaterali (concerti, karaoke, raduni, gare sportive, ecc.) che la sua sezione giovanile organizza con cadenza regolare, dando un rifugio identitario, un ancoraggio “sociale”, ad una gioventù sempre più atomizzata e frustrata nelle sue aspettative di futuro.
In questa tornata elettorale c’è anche un altro dato che fa rumore, il 16,7% (47 seggi) del partito Jobbik, movimento di estrema destra antisemita, con ascendenze nella storia del fascismo nazionale
Il suo leader è Gábor Vona, classe 1978, insegnante di storia con cognome italiano (di origine italiana sarebbero i suoi antenati paterni), noto per aver costituito nel 2007 la Guardia Ungherese (Magyar Gàrda), una formazione paramilitare, poi sciolta nel 2008 dalla Corte Metropolitana di Budapest, riecheggiante, anche nella simbologia e nelle divise, gli squadroni dei nazisti magiari d’anteguerra.
Come per la Fidesz, il partito di governo guidato da Viktor Orbàn, anche per Jobbik la crisi, la sua gestione iniziale, poi la risposta nazionalista e l’antieuropeismo di maniera, sono stati decisivi per il suo successo. Di più, la formazione di Vona, ci ha messo solo le sue furibonde campagne d’odio contro i Rom, la più grande minoranza d’Ungheria (circa il 6% della popolazione). Tema facile, bersaglio facile. Un classico tra le destre estreme di tutti i tempi.
Sul piano strettamente “programmatico”, ciò che risalta nei documenti ufficiali di questo partito è, manco a dirlo, la retorica antieuropeista ed anticasta, il tema dell’indipendenza dell’industria e dell’agricoltura nazionale, l’avversione per il “mondialismo liberaldemocratico”, la lotta alla corruzione, la tutela dell’identità magiara. Anche qui, quindi, niente di nuovo. Tutto, però, molto inquietante.
Nel frattempo l’economia ha incominciato a dare qualche segno di ripresa, ma da qui a parlare di “miracolo ungherese”, come alcuni sostengono, ce ne passa. Rimane una forte asimmetria tra “progressi” dell’economia e distribuzione del reddito, se è vero che il Paese, dopo Romania e Bulgaria, è ai vertici europei per numero di poveri (26% della popolazione) e di soggetti a rischio di esclusione sociale.
Questo mentre il governo nazionalista si destreggia abilmente tra fedeltà all’Europa, da cui continua a drenare risorse (per il periodo 2014-2020 l’Ungheria sarà uno dei principali beneficiari dei fondi strutturali europei, ben 35 miliardi di euro da investire nello sviluppo dell’economia e dell’agricoltura) e nuove sinergie con la Russia di Putin (il paese dipende dalla Russia per il 60% delle sue importazioni di gas e per l’80% delle sue importazioni di petrolio), con la quale, lo scorso anno, aveva avviato una trattativa anche per il nucleare civile, poi stoppata da Bruxelles. Senza successi evidenti, verrebbe da aggiungere, visto il vero e proprio esodo di giovani verso altri paesi Ue registratosi negli ultimi 2-3 anni.
L’economia ha incominciato a dare qualche segno di ripresa, ma da qui a parlare di “miracolo ungherese”, come alcuni sostengono, ce ne passa
In questo contesto si sono svolte le ultime elezioni parlamentari (maggio 2014), che hanno fatto registrare un calo vistoso del partito di governo (-8,16% rispetto a quattro anni prima), una ripresa dei socialisti, ma soprattutto un nuovo balzo in avanti dei fascisti di Jobbik, che passano dal 16,7% al 20,54%, circa un milione di voti in valore assoluto. L’impressione che si ha è che il terreno del nazional-autoritarismo, arato a mestiere da Orbán e dal suo Fidesz in questi anni, stia diventando particolarmente congeniale allo sviluppo delle forze più radicali della destra locale, a cominciare, ovviamente, dal partito di Gábor Vona. Ne è conferma un sondaggio che sta girando in questi giorni, che darebbe il Jobbik vicino, addirittura, al 30% dei consensi.
Un recente rapporto del Consiglio d’Europa ha denunciato una pesante involuzione democratica nel Paese e rischi crescenti per alcune minoranze, Rom in primis. Le prossime elezioni politiche sono previste per il 2018, manca molto ancora. Nondimeno, il clima che regna in questo angolo d’Europa non può che destare preoccupazione. Tanto più se i prossimi anni saranno segnati da una radicalizzazione della competizione a destra, a spese della democrazia, delle libertà fondamentali, dei diritti dei più deboli.