Una volta c’era il genio. Lo spirito eccezionale e potente della tradizione, prima mediorientale e poi romana, in grado di donare grandi poteri, di esaudire i desideri e di proteggere una persona o una famiglia. Dopo i romantici, arriva il genio inventore. Uno spirito, sempre eccezionale, che vede il mondo diversamente dagli altri, che lo inventa e lo reinventa con le proprie idee. È il genio a cui pensiamo quando parliamo di Einstein o di Leonardo da Vinci, di Beethoven o di Newton, quello delle grandi innovazioni e delle grandi opere. Quello della lampadina accesa sulla testa. Ma c’è chi non è d’accordo.
Dal genio allo scenius
Brian Eno, produttore e musicista noto soprattutto per aver creato la definizione di musica ambient, dice che quello del genio è un mito:
Sono stato uno studente di una scuola d’arte e, come tutti gli studenti di scuole d’arte, sono stato incoraggiato a credere che c’erano una manciata di grandi personaggi come Picasso, Kandinsky, Rembrandt e Giotto e così via che sono più o meno apparsi dal nulla e hanno prodotto una rivoluzione artistica. Ma più osservo l’arte, più mi rendo conto che la verità è un’altra.
Il genio è solamente la punta dell’iceberg
Eno sostiene che il genio sia solo la punta dell’iceberg e che dietro ci sia dell’altro: delle “scene” senza cui questi geni non esisterebbero. Gruppi di persone che, lavorando insieme, producono grandi cose. Le idee non nascono mai nel vuoto — o dalla magia di un genio — ma si appoggiano sempre su qualcos’altro. E, spesso, molto spesso, quel qualcosa è un insieme di intuizioni e idee prodotte da un insieme di persone. Chiamiamo genio la persona che per prima riesce a combinare queste intuizioni in qualcosa di nuovo e veramente rivoluzionario, ma senza il lavoro degli altri membri della scena, quell’idea non sarebbe probabilmente mai nata.
Brian Eno si inventa persino una parola per parlare di queste scene. Se da una parte c’è il genio (genius, in inglese), dice, dall’altra c’è lo scenius:
scenius è l’intelligenza di un’intera organizzazione o di un gruppo di persone. E credo che sia un modo più utile di pensare alla cultura. Penso che dovremmo dimenticarci dell’idea di genio per un po’ e pensare all’ecologia delle idee che può creare nuovi grandi pensieri e nuove grandi opere [corsivi miei].
E, va ammesso, tutti gli artisti citati da Eno hanno una comune origine in uno scenius. Alla fine dell’estate del 1900, ad esempio, Picasso si trasferisce a Parigi e si immerge nello scenius dei pittori di Montmartre e Montparnasse, dove incontra artisti come Georges Braque, Henri de Toulouse-Lautrec, Amedeo Modigliani, Guillaume Apollinaire e chissà quanti altri di cui non ricordiamo il nome. Per Kandinsky il discorso è simile parlando di Monaco di Baviera e del quartiere di Schwabing, il cui scena espressionista è diventata famosa col nome di Il cavaliere azzurro, gruppo di cui facevano parte pittori come Franz Marc e Paul Klee. Per Rembrandt lo scenius di riferimento è quella di Amsterdam, che all’inizio del 1600 stava diventando la capitale del commercio olandese e che attraeva artisti da tutto il Paese. Per Giotto, così come per tanti altri geni del Rinascimento italiano, lo scenius è naturalmente Firenze. Vogliamo andare avanti e aggiungere altri nomi meno ovvi alla lista di Eno? Dietro Einstein, famoso per aver scritto alcune delle sue più grandi ricerche mentre lavorava all’ufficio brevetti, c’era lo scenius scientifico di Berna. Dietro Kafka, che di lavoro faceva il commesso viaggiatore, c’era Praga e l’amicizia con Max Brod (che diventò il biografo di Kafka), Felix Weltsch, Oskar Pollak e Oskar Baum.
Secondo Kevin Kelly, cofondatore di Wired Magazine, tutti gli scenius hanno delle caratteristiche comuni che li rendono ambienti fertili allo sviluppo di nuove idee e all’emergere di innovazione. C’è, prima di tutto, un apprezzamento interno tra i membri, che riconosce valore alla sperimentazione e spinge all’innovazione tramite una sana competizione. C’è una capacità e volontà di scambiarsi velocemente nuove tecniche e pratiche, che rende ogni novità uno strumento comune e condiviso, su cui gli altri possono costruire. C’è il riverberarsi sull’intera scena del successo di uno dei membri, che fa da acceleratore per gli altri. E c’è una zona franca intorno alla scena che protegge chi sta all’interno, permettendo di osare cose nuove senza il rischio di essere giudicati.
Uno scenius moderno di grande successo, ad esempio, è il movimento dei maker, gli inventori e gli hacker che stanno trasformando la stampa 3D e l’internet of things in realtà. Dentro al movimenti c’è di tutto, da chi produce pezzi di ricambio per hobby a chi ha trasformato la stampa 3d in un’azienda che vale milioni di dollari. Makerbot, una delle aziende che sta avendo maggior successo nella commercializzazione di stamapanti 3d (e che nel 2013 è stata acquisita dal gigante del settore Stratasys per 403 milioni di dollari) nasce esattamente da questa scena. Zach “Hoeken” Smith, uno dei tre fondatori della società, ha lavorato per anni al RepRap Project, uno dei più utopici progetti di stampanti 3d, che vuole creare una stampante in grado di copiare sé stessa.
Dallo scenius alle città
Johnson crede che sia stato l’avvento delle città a cambiare le carte in tavola per il mondo delle idee e, be’, per l’umanità
Steven Berlin Johnson, nel suo Where Good Ideas Come From (tradotto in Italia col titolo Dove nascono le grandi idee, Rizzoli, 11 €) presenta un’idea molto simile a quella dello scenius, spingendo l’idea delle comunità come fondamenti dell’innovazione ancora più in là: Johnson crede che sia stato l’avvento delle città a cambiare le carte in tavola per il mondo delle idee e, be’, per l’umanità.
Comparse circa 10mila anni fa, le città sono state — dice Johnson — il primo catalizzatore dell’innovazione. E se guardiamo alla storia delle invenzioni, basta uno sguardo per capire quanto hanno cambiato le cose. Prima abbiamo una manciata di innovazioni, sparpagliate nel corso di migliaia di anni, come l’invenzione della tessitura, del vasellame, delle barche e dell’irrigazione. Ma dopo? Dopo, c’è un esplosione di idee e trasformazioni, dall’alfabeto alla moneta, dal sapone al pane, dalle fognature ai papiri. Il motivo è semplice: quando abbiamo iniziato a vivere insieme abbiamo anche iniziato scambiarci idee molto velocemente e ad avere la possibilità di costruire sulle intuizioni degli altri. Brian Eno direbbe che ci siamo aggregati nei primi scenius e che abbiamo creato un ecosistema fertile in grado di far emergere le buone idee.
Linea temporale delle innovazioni, prima e dopo l’arrivo delle città, da Dove nascono le grandi idee di Steven Berlin Johnson
Le città non sono solamente abilitatori di innovazione, ma anche spazi dove cristallizzare queste innovazioni in pratiche e tecniche
È possibile, spiega Johnson, che qualche cacciatore-raccoglitore avesse scoperto le proprietà pulenti delle ceneri mescolate con il grasso, ma senza una struttura sociale che permette il passaggio di idee da individuo a individuo e la trasformazione di queste idee, tutte queste intuizioni si perdono nel nulla. Se un singolo individuo scopre il sapone, il singolo individuo si può pulire e aumenta le proprie possibilità di sopravvivenza, ma la cosa finisce lì. Ma se una comunità scopre e inizia a usare il sapone, l’impatto è centinaia di volte più grande: non solo tutta la città diventa più sana, ma intorno alla scoperta possono nascere attività commerciali e ulteriori innovazioni che la prendono come punto di partenza. Le città, insomma, non sono solamente abilitatori di innovazione, ma anche spazi dove cristallizzare queste innovazioni in pratiche e tecniche. Senza essere messe in una rete, senza che possano passare di cervello in cervello, le nostre idee sono (o, meglio, erano) destinate a perdersi nel nulla.
Per Johnson, la dimostrazione di questa teoria è l’Italia del Rinascimento. Quelli che riconosciamo come grandi geni italiani, dal già citato Giotto a Leonardo da Vinci, da Michelangelo a Brunelleschi, e quelle che riconosciamo come grandi innovazioni del Rinascimento sono una diretta conseguenza dello sviluppo urbano di quegli anni. Tra il quattordicesimo e il quindicesimo secolo, il nord e il centro Italia erano le regioni più urbanizzate di tutta l’Europa e questo, insieme alla lenta uscita dalla rigida cultura medievale di idee fissate a mano dai monaci amanuensi e all’arrivo del capitalismo dei mercanti, libera nuove energie e spinge l’Italia a trasformarsi radicalmente. Le città si riempiono di scenius e diventano motori di innovazione della scienza, della tecnica, dell’arte e della cultura.
Oggi le cose stanno cambiando di nuovo. Con l’arrivo di internet, abbiamo iniziato a costruire città virtuali a fianco di quelle fisiche. E iniziato a popolare piccoli e grandi comunità online. Luoghi dove persone che hanno gli stessi interessi si possono incontrare per discutere e costruire cose nuove (o, se non altro, anche per fare queste cose). Queste città virtuali sono ancora poco più che villaggi — internet in fondo ha solamente 20 anni, e ancora oggi non è nemmeno diffuso uniformemente in tutto il mondo — e ancora dobbiamo ancora imparare veramente come lavorare e condividere quando non possiamo guardarci negli occhi. Ma alcune grandi idee sono già emerse da questi nuovi luoghi. Altre, sicuramente, emergeranno in futuro. I presupposti perché il genio esca dalla lampada e diventi uno scenius in rete, in fondo, ci sono più che mai tutte.