Per gli economisti di tutto il mondo, soprattutto per quelli di orientamento progressista, Tony Atkinson è stato e continua ad essere un punto di riferimento importante. Professore a Cambridge, successivamente a Oxford e alla London School of Economics, è autore insieme a Joseph Stiglitz di alcune tra le più importanti teorie di economia politica, microeconomia ed economia comportamentale. Sopratutto, è stato un pioniere, in Gran Bretagna e nel resto del mondo, dello studio economico delle diseguaglianze e della povertà. Thomas Piketty l’ha definito uno dei “maestri” senza i quali il suo libro Il Capitale nel XXI Secolo non avrebbe mai visto la luce. Già nel 1996, sul Political Quarterly Journal, Atkinson propose un’idea di “reddito di partecipazione”, idea che recentemente è tornata di attualità visto il dibattito crescente sulla possibilità di introdurre uno schema di reddito minimo in Gran Bretagna, in Italia ed in altri paesi d’Europa.
Professor Atkinson, ci spieghi cosa intende per “reddito di partecipazione”?
Questo concetto risale al filosofo belga Philippe Van Parijis e al suo libro “Libertà reale per tutti”. Egli tratta due problemi legati al reddito universale. Il primo è definire chi effettivamente è incluso nell’“universale” di uno Stato. Usando per esempio la cittadinanza come criterio si incorre in più problemi. La cittadinanza in sé è un concetto ambiguo e relativo. Quanti cittadini italiani ci sono? I cittadini italiani residenti all’estero sono da considerarsi destinatari di un reddito di cittadinanza? Dall’altro lato, dovremmo includere i residenti in Italia ma non cittadini? La libertà di spostarsi rischia di complicare l’idea di un reddito di cittadinanza, e al contempo di essere ostacolata da un reddito legato alla residenza.
Come si risolve, questo problema?
Non si risolve. La cittadinanza non funziona politicamente e praticamente: troppi che non dovrebbero ricevere il reddito lo riceverebbero, e troppi che invece si vorrebbe lo ricevessero non lo riceverebbero. Anche a livello di regolamentazione comunitaria, lavorando ad esempio in Inghilterra come cittadino svedese, o italiano o francese, sarebbe giusto comunque essere intitolati al reddito di cittadinanza.
La residenza potrebbe essere una soluzione?
Anche quella è difficile da definire. L’oligarca Abramovich, patron del Chelsea, è residente in Inghilterra: dovrebbe essere destinatario di un reddito minimo? Anche la residenza è ingannevole. D’altra parte, anche persone molto coinvolte nella società britannica non sono necessariamente residenti.
«La cittadinanza non funziona politicamente e praticamente: troppi che non dovrebbero ricevere il reddito lo riceverebbero, e troppi che invece si vorrebbe lo ricevessero non lo riceverebbero»
Non c’è anche un problema etico legato ad un reddito garantito a ricchi, poveri, lavoratori e lavativi?
È esattamente il secondo problema del reddito di cittadinanza: immaginate se dovessimo pagare un reddito al chief designer della Apple come cittadino britannico… Un punto che invece credo sia importante affermare è quello della reciprocità (invece che focalizzarci sulla condizionalità). Non vogliamo che le persone ricevano somme in maniera assistenzialistica, “stando seduti al sole”. Per questo ho provato a definire un criterio di assegnazione che fosse più ampio dell’occupazione o disoccupazione, ma legato al contributo nella società.
È leggittimo a questo punto chiedersi come definire questo “contributo nella società”?
Sicuramente rientrano in questa definizione i lavoratori dipendenti ed autonomi, gli studenti, chi si occupa della cura dei più anziani. Poi entri in aree in cui è più difficile distinguere, come in quella degli stagisti, del lavoro volontario, della cura della famiglia. Ci sono molte zone grigie.
Quindi, i disoccupati sarebbero esclusi da questo schema di reddito di partecipazione?
No, fintanto che sono iscritti agli uffici di collocamento, o in cerca di lavoro, o comunque attivi in qualche modo nel cercare lavoro, insomma, che rientrino nella definizione di “disoccupati” insomma: in cerca di lavoro. Inoltre, sarebbe pagato individualmente e indipendentemente dal reddito.
Perché il fatto che sia pagato all’individuo e non alle famiglie è importante, secondo lei?
Perché i sussidi pagati su base familiare creano forti disincentivi per il partner a cercare ed accettare un lavoro: così facendo l’intero nucleo familiare perderebbe i benefici del sussidio. L’indipendenza dalla situazione familiare riduce dunque le distorsioni, e penso possa anche essere un fattore che promuova la parità di genere.
«Non vogliamo che le persone ricevano somme in maniera assistenzialistica, “stando seduti al sole”. Per questo ho provato a definire un criterio di assegnazione che fosse più ampio dell’occupazione o disoccupazione, ma legato al contributo nella società»
In alcuni contesti dove è stato introdotto un reddito minimo, alcune imprese – è noto il caso di Walmart – hanno sfruttato il fatto che lo Stato garantisca un reddito minimo come una possibilità per abbassare gli stipendi pagati dall’azienda ulteriormente. Come si eviterebbe questo effetti collaterali sugli incentivi?
Credo sia un buon punto, ma attenzione che già adesso alcune istituzioni sussidiano i lavoratori poveri, in pratica favorendo le assunzioni con bassi stipendi. Ad esempio, negli Stati Uniti c’è un sussidio fiscale che supporta il reddito netto dei lavoratori della fascia inferiore, ma ne incentiva anche l’uso. Il reddito di partecipazione avrebbe forse un simile effetto collaterale, ma la pratica sarebbe meno occultabile. Inoltre, in termini di economia comportamentale, gli incentivi ad abbassare il livello di salario da parte dell’azienda (e ad accettare il taglio da parte del lavoratore) sarebbero minori, essendo il reddito di partecipazione indipendente dalla busta paga. Per riassumere, gli effetti sugli incentivi sarebbero complessi, sicuramente un aumento della tassazione sarebbe scoraggiante, ma penso che per il resto un reddito di partecipazione ben disegnato migliori la situazione.
Ha già in mente un livello monetario di reddito di parteciazione, rispetto al salario mediano? Come pensa debba essere definito tale livello?
Abbiamo già affrontato, in Gran Bretagna, la definizione del livello di salario minimo. Probabilmente, un’autorità simile dovrebbe essere in grado di definire il livello di reddito di partecipazione. Tenendo ovviamente a mente che gli incentivi e gli effetti economici dei due provvedimenti sono abbastanza diversi, visto che il reddito minimo di partecipazione, a differenza del salario minimo, lo si riceve in maniera slegata dalle decisioni lavorative. Con uno schema di questo tipo, la scelta non sarebbe tra salario da lavoro o reddito di partecipazione, ma ad una base di reddito di partecipazione si aggiungerebbe il reddito da salario lavorativo. Quindi un livello abbastanza basso non dovrebbe avere effetti distorsivi sull’offerta di lavoro. Infatti, ciò che invece influenza fortemente gli incentivi è la tassazione basata sul reddito da lavoro, non il ricevere un beneficio forfettario. Non è sicuramente una panacea, ci sono costi e benefici, tuttavia il reddito di partecipazione li rende espliciti e “distaccati” dalla decisione lavorativa. Quindi, a livello comportamentale meno distorsivi.
In Inghilterra, chi è che supporta politicamente questa proposta?
Attualmente, soltanto il Green Party. I sindacati non sembrano interessati ad un reddito di partecipazione, e tantomeno ad un reddito minimo condizionale.
In Italia stiamo adesso introducendo alcune prime forme di politiche attive, non senza problemi di natura pratica e amministrativa. Come pensa si possa applicare uno schema di reddito di partecipazione in un contesto socio-culturale come quello italiano? Non ci sarebbero grosse criticità organizzative per i controlli e l’assegnazione?
Sì. Di certo nel Regno Unito è tanto tempo che queste misure sono in pratica. Quindi sarebbe quasi una riduzione del carico organizzativo piuttosto che un aumento. Abbiamo il 22% della popolazione che usufruisce di benefici legati al reddito. Ci stiamo muovendo nella direzione opposta, riducendoli. Sicuramente il caso italiano solleverebbe diversi problemi ma, per come la vedo io, il vostro è comunque un Paese ricco, e dovrebbe essere in grado di sopportate il carico organizzativo necessario.
«L’errore degli economisti tradizionali è di considerare un taglio delle tasse e un beneficio come il reddito minimo equivalenti dal punto di vista dell’incidenza»
Il nostro paese si trova oggi con un grosso debito pubblico e con una pressione fiscale tra le più alte d’Europa. Quali sarebbero i costi di una simile misura? Crede sia possibile un’operazione sostenibile per i conti pubblici? Non rischierebbe di creare meccanismi inflattivi?
Credo sia un problema prettamente politico. L’impatto è essenzialmente quello di un taglio d’imposta, solo che viene emesso monetariamente. L’errore degli economisti tradizionali è di considerare un taglio delle tasse e un beneficio come il reddito minimo equivalenti dal punto di vista dell’incidenza. L’economia comportamentale insegna che un beneficio esplicito, come un reddito minimo, è molto più probabile che venga consumato invece che messo nel cassetto, cosa che al contrario accade spesso per i benefici impliciti come un taglio d’imposta. Implementando la proposta del participation income nei modelli Euromod un simulatore degli effetti delle politiche fiscali elaborato dall’Università dell’Essex, si vede che sarebbe possibile fare una manovra a costo zero per le finanze pubbliche. Di conseguenza, non dovrebbero innescarsi i meccanismi inflattivi tipici di una manovra espansiva.
* Chi siamo: Siamo Andrea Cerrato, Francesco Filippucci, Cecilia Mariotti e Francesca Viotti. Siamo un gruppo di studenti di Economia alla Bocconi. Ci piacciono i dischi, le foto, gli artisti, i marchingegni alla moda, le muse, i registi, Piero Ciampi e Bianciardi, Notorious, B.I.G., Pasolini e Jay-Z.