Il fumetto italiano sembra essere un mondo molto particolare, che, dal punto di vista del pubblico, pare attraversato da una sottile linea rossa che lo divide in due: da una parte il fumetto popolare, quello da edicola, la cui storia è fatta dalle serie degli albi editi da Bonelli, da Tex a Dylan Dog, o da prodotti mainstream come Topolino, capace fino a qualche anno fa di vendere decine, o anche centinaia di migliaia di copie; dall’altra parte c’è un’area ricca e variegata, quella del fumetto “d’autore”, che va dalle graphic novel al fumetto underground, un sottoinsieme il cui pubblico, da sempre meno numeroso, si sta specializzando e forse addirittura infoltendo.
Si tratta di due sponde di una stessa arte, quella di raccontare storie a fumetti, che, dal punto di vista del pubblico, attraggono due tipi di lettore distinti, solo raramente sovrapponibili. Il discorso però cambia se lo approcciamo dal punto di vista degli autori, un mondo che difficilmente riusciremmo a dividere ugualmente, vista la fitta rete che unisce disegnatori e sceneggiatori, una rete di cui probabilmente il lettore medio non si rende conto, ma che esiste, ed è forte.
In questi anni, uno di questi due mondi, quello del fumetto d’autore, ha vissuto un fenomeno inedito per proporzioni, ovvero l’emergere di fenomeni — Gipi e Zerocalcare sopra tutti — che sono riusciti a portare alla ribalta di un pubblico finora mai visto, molto più grande di quello che solitamente si avvicinava a questo tipo di prodotti. Nello stesso tempo, il fumetto popolare, complice forse la crisi della distribuzione delle edicole e l’invecchiamento di una parte del suo pubblico storico, sembra vedere flettersi il proprio flessione.
Insomma, il fumetto italiano contemporaneo è in grande fermento. Per cercare di capire meglio cosa sta succedendo, quali siano i suoi problemi e le sue potenzialità, abbiamo intervistato, riuniti allo stesso tavolo, a Ivrea, durante il festival La grande invasione, Tito Faraci e Claudio Calia, due autori umanamente molto vicini tra loro — sono amici da anni — ma che lavorano sulle due differenti “sponde”: Tito Faraci, uno dei più importanti sceneggiatori italiani del fumetto popolare, tra gli altri di Topolino, PK, Tex, Dylan Dog e Diabolik, e Claudio Calia, uno degli autori più attivi e impegnati socialmente del fumetto underground, autore di fumetti come È primavera – Intervista a fumetti a Antonio Negri (2008) e Piccolo Atlante Storico Geografico dei Centri Sociali Italiani (2014), entrambi editi da Becco Giallo.
«Il fumetto in Italia sta peggio dei fumettisti, il pubblico si è ristretto, si è fatto più preparato, ma si è ristretto»
Cominciamo da te, Tito: come sta oggi il fumetto italiano?
Dal mio punto di vista il fumetto in Italia sta peggio dei fumettisti. È una dinamica a cui abbiamo assitito già in altre forme d’arte: quando si restringe il pubblico, quando non diventa così automatico che tutti leggano fumetti, significa che quelli che ci si avvicinano hanno deciso di farlo. Un tempo entravi in una qualsiasi classe, a scuola, e se chiedevi in quanti leggevano fumetti avevi la maggior parte delle mani alzate. Era normale, ma non era una scelta, era come guardare la televisione. A nessuno interessava chi li scriveva, né la qualità di quel che c’era dietro, né tantomeno dell’originalità della proposta.
«Oggi noi che facciamo fumetti siamo molto di più degli “autori”, il che non vuol dire essere più fighi, ma avere un rapporto diretto e di maggiore responsabilità con il proprio pubblico»
E ora, cos’è cambiato?
Adesso, se fai la stessa domanda, le mani che si alzano sono poche, ma sono mani di lettori molto consapevoli, lettori che voglio sapere chi lo scrive, come lo scrive, che esigono una qualità alta, che quindi, quando spendono i loro soldi — che siano in edicola o in fumetteria — vogliono sapere che ne vale la pena. Oggi noi che facciamo fumetti siamo molto di più degli “autori”, il che non vuol dire essere più fighi, ma avere un rapporto diretto e di maggiore responsabilità con il proprio pubblico, vuol dire essere più consapevole. Un autore oggi non è più uno degli ingranaggi della ruota, è diventato la ruota. È una cosa importante, e fa anche molto piacere, oltre che conferire un ruolo sociale. Per esempio, ora siamo qui a un festival letterario e non ci sentiamo più come si sente il parente che è stato in prigione quando la famiglia lo invita a Natale. Quindi, per tornare alla tua domanda iniziale, il fumetto che faccio io, ovvero il fumetto popolare, non sta bene come un tempo, ma paradossalmente stanno meglio i fumettisti, che in questo contesto, definito da un pubblico più ristretto ma molto più preparato, sono diventati più consapevoli del proprio lavoro.
«È vero, la dimensione del pubblico è più piccola di quella di qualche anno fa, ma se per il fumetto popolare questo è un restringimento, per quello “underground” è un ampliamento»
Claudio, invece tu come la vedi? Qual è la situazione del fumetto underground, oggi, in Italia?
Devo dire che la mia impressione è quasi contraria rispetto a quella di Tito, tanto che ormai mi viene un po’ difficile definirmi underground, visto che i miei libri da un po’ escono nelle librerie, pubblicati da editori importanti, cosa che rende il definirsi underground un po’ capzioso. Effettivamente il processo di restringimento del pubblico di cui parla Tito esiste ed è forte, ma sul mondo del fumetto di cui faccio parte io paradossalmente agisce in maniera opposta. È vero, la dimensione del pubblico è più piccola di quella di qualche anno fa, ma se per il fumetto popolare questo è un restringimento, per quello “underground” è un ampliamento.
«È vero: di mani alzate ce ne sono molte di meno di una volta, ma quelle che ci sono sono di lettori molto più preparati, esigenti, più attenti alla figura dell’autore»
Cos’è cambiato in questi anni?
Mi sembra che non ci sia mai stato in Italia un panorama di offerta così variegata di questo genere di fumetto, che è quello in cui mi colloco io. Confermo anch’io quel che dice Tito, delle mani alzate nelle scuole, faccio anch’io molti workshop e corsi e di mani alzate ce ne sono molte di meno di una volta, ma quelle che ci sono sono di lettori molto più preparati, esigenti, più attenti alla figura dell’autore. Dicendola nuda e cruda, se io qualche anno fa stampavo un fumetto autoprodotto e potevo ambire a raggiungere qualche centinaio di persone — tra l’altro leccando i francobolli e imbustando, senza internet e i pdf — ora quelle poche centinaia sono diventate qualche migliaio. Quindi, tornando anch’io alla tua domanda, direi che questo è un bellissimo periodo per il mondo del fumetto indipendente. Con la premessa necessaria, però, che se oggi un mio fumetto va bene vende qualche migliaio di copie, mentre se quello che fa Tito va male ne vende comunque decine di migliaia.
«Dal punto di vista di noi autori, la distanza non esiste, e infatti siamo qui a bere una birra insieme»
Tito, quello che viene fuori dalle vostre risposte conferma l’impressione che effettivamente il mondo del fumetto, almeno dal punto di vista dei lettori, sia diviso in due compartimenti stagni, come se i vostri due lettori tipo non possano essere lo stesso, anzi, come se quasi non si conoscano neppure…
Direi che è abbastanza vero, e aggiungerei purtroppo. Sicuramente c’è un tipo di lettore che abbiamo in comune, però la base è effettivamente divisa in due. Tra l’altro credo che in molti dei miei lettori non possano immaginare che in realtà, dal punto di vista di noi autori, la distanza non esiste, e infatti siamo qui a bere una birra insieme. Non credo che in molti dei miei lettori possano immaginare che io e Igort siamo amici, che con Gipi ci si veda e si passi ogni tanto serate insieme, o che, per fare altri esempi, che un Cavazzano possa parlare con un Giacon e che si scambino addirittura segni e citazioni.
Di che tipo di scambio si tratta?
È anche uno scambio di idee, di influenze, di consigli. Siamo tutti molto vicini, in molti casi siamo amici. E credo che questa vicinanza, ti ripeto, spesso anche artistica, non sia per niente presa in considerazione dai nostri lettori, che al contrario di noi non si conoscono tra loro, non si frequentano. Pensa, quando ho iniziato a scrivere storie per Topolino mi dicevano che io facevo “Mickey Maus”, stopriando Mouse in Maus , la grandiosa graphic novel di Art Spiegelman, uno dei più grandi autori del Underground Comix. E lo dicevano perché sapevano bene quando il mio lavoro sia influenzato dall’underground, dalle graphic novel, dal fumetto americano d’autore. Per me è naturale, ma i lettori si stupiscono di questa cosa, pensano che dobbiamo per forza essere in territori contrapposti, stagni. Un esempio palese di quanto si sbaglino è proprio un progetto a cui sta lavorando Claudio, un viaggio attraverso il suo amore per il fumetto popolare e a cui proprio io scriverò la prefazione. Che poi, questa definizione di fumetto popolare fa un po’ ridere, come se l’altro fosse fumetto “impopolare”.
È una distinzione che c’è sempre stata?
No, una volta questa distinzione ho l’impressione che non ci fosse: Hugo Pratt pubblicava su giornali che andavano in edicola, Pazienza anche, e pure Mattioli e Liberatore. Forse non ci si poneva nemmeno il problema. Ed era perfetto, perché abbiamo storie da raccontare, un mestiere da fare e uno strumento da utilizzare — sì, uno strumento, perché il fumetto, come il cinema, non è un linguaggio, ma ha un linguaggio — e quindi tra di noi è come se ci sentissimo dentro un laboratorio continuo, in cui ci prestiamo gli strumenti, ci guardiamo affianco, ci influenziamo a vicenda. E quindi si attivano quelle strane dinamiche — strane per il pubblico, ma non per noi — in cui un autore underground guarda al maestro del fumetto disneyano come Cavazzano, che magari a sua volta sbircia il lavoro del fumetto d’autore francese, che è fondamentale per lui. O ancora, autori di graphic novel che proprio da Cavazzano si fanno ispirare e così via. Quindi, seppur i lettori siano diversi, gli autori fanno parte di un’unica grande bottega.
Claudio, tu come la pensi?
Sì, credo anch’io che quel che dice Tito sia vero, perché tra noi abbiamo letture decisamente molto simili, se non sovrapponibili…
Come ad ogni tavolo a cui sono sedute più di due persone, l’intervista si fa a tratti una vera e propria conversazione tra loro, tra i due autori, che ogni tanto — sempre gentilmente e spesso ridacchiando — si interrompono, accavallando le proprie voci.
«Aggiungo una cosa», interviene Tito Faraci «ovvero che condividiamo tutti un forte impegno politico, siamo militanti, non di rado frequentatori di centri sociali. Io credo che questa sia una cosa importante, che crea una certa compattezza, perché proveniamo dalla stessa area culturale. Si dice sempre che il fumetto in Italia sia un covo di bolscevichi», continua ridacchiando, «e forse in fondo è proprio così»…
«Si dice sempre che il fumetto in Italia sia un covo di bolscevichi», continua Faraci ridacchiando, «e forse in fondo è proprio così»
Claudio, dal tuo punto di vista di autore impegnato, come valuti l’impatto sul mercato del fumetto d’autore del fenomeno Zerocalcare?
Nel mio ultimo libro c’è la prefazione di Zerocalcare e in molti mi chiedono come ho fatto a convincerlo, come se non venissimo entrambi dallo stesso mondo. Possiamo tifiare le parti opposte nella civil war della Marvel — lui sta con Iron Man, io sto con Capitan America e dice che io sono un texano con il fucile sotto il letto — però, Marvel a parte, siamo molto vicini.
«Non saprei se il fenomeno Zerocalcare — o anche il fenomeno Gipi, visto che anche lui vende un sacco di copie — faccia bene al mondo del fumetto in generale, è ancora difficile da stabilire»
Colgo la citazione a Zerocalcare, nonché il fatto che avete lavorato insieme, per chiederti se credi che il suo enorme successo possa aprire la strada a un pubblico più largo anche ad altri fumettisti…
Guarda, te ne racconto una: leggendo La profezia dell’armadillo ho scoperto che una volta, durante una manifestazione a Bologna, lui è stato picchiato da un gruppo di nazi. Be’, a me, in quella stessa manifestazione, un lacrimogeno sparato della polizia mi mandò a fuoco la tuta bianca che avevo addosso. Te lo racconto per dire che non ho cercato Zerocalcare perché mi piacevano i suoi fumetti — che mi piacciono eh? — ma per farti capire che noi due siamo uniti da una cosa che va ben oltre il fumetto. Ora, venendo alla tua domanda, che il fenomeno Zerocalcare — o anche il fenomeno Gipi, visto che anche lui vende un sacco di copie — faccia bene a tutto il fumetto io non lo so. Di certo mi fa piacere e spero che continuino a vendere, perché più gente legge fumetti più sono contento. Ma non credo che sia matematico che il loro successo si rifletta sugli altri. Posso dirti però la mia esperienza personale. Quando Zerocalcare ha fatto la prefazione a fumetti del mio ultimo libro, il libro ha effettivamente venduto più degli altri che avevo pubblicato. Quindi, è innegabile che il fattore Zerocalcare influisca sulle vendite, almeno su ciò che fa lui, per quanto riguarda il fenomeno generale ti ripeto che non saprei valutare.
«Non si può certo dire che Zerocalcare non sia un bestseller», dice Tito, «eppure sembra avere smosso più di tanto, anzi mi sembra che non abbia smosso per niente il mercato del fumetto in Italia»
Tito, tu cosa ne pensi?
Te ne racconto anch’io una: anni fa parlavo con il direttore editoriale di una grande casa editrice di quanto il mercato delle graphic non si smuovesse. Lui era convinto che servisse lo scossone di un bestseller e quando Gipi ha iniziato a vendere tanto gliel’ho fatto presente, ma secondo lui non era ancora un bestseller come lo intendeva. Ora è arrivato Zerocalcare, che non si può certo dire che non sia un bestseller, eppure non si può dire che abbia smosso più di tanto, anzi mi sembra che non abbia smosso per niente il mercato generale del fumetto in Italia. I numeri che hanno i libri a fumetti — dall’underground alle graphic novel, dal fumetto d’autore a quello mainstream — non hanno mostrato la botta che ci si poteva attendere, perché Zerocalcare non ha fatto da traino.
«Zerocalcare è percepito dai lettori soltanto come Zerocalcare, non rappresenta, così come Gipi, né un fenomeno né un movimento»
Perché?
Secondo me perché Zerocalcare è percepito dai lettori soltanto come Zerocalcare, non rappresenta, così come Gipi, né un fenomeno né un movimento. Rappresenta semplicemente se stesso, ed è anche giusto che sia così. Questa secondo me è una tendenza che si innesta nel discorso che facevamo prima, quello dell’importanza maggiore dell’autore rispetto a qualche anno fa, perché se torniamo indietro di qualche decennio e prendiamo i casi di fumettisti come Pazienza, Scozzari, Mattioli, perfino Pratt in qualche modo rappresentavano un movimento.
«Ora per fare questo lavoro non vai più “a bottega”, vai a qualche scuola di fumetto e se è vero che sviluppi il tuo stile e la tua voce, sei meno portato a “fare generazione”»
Come mai gli autori in questo momento non riescono a fare da traino per un’intera generazione o per un intero “movimento”?
Forse perché ormai non esiste più il lavoro di bottega. Io, come sceneggiatore, sono stato forse l’ultimo ad avere la possibilità di lavorare di fianco ad alcuni grandi e imparare da loro, spiando come lavoravano, aiutandoli. Ora è una cosa che non si fa più, ora per fare questo lavoro non vai più “a bottega”, vai a qualche scuola di fumetto e se è vero che sviluppi il tuo stile e la tua voce, sei meno portato a “fare generazione”. Una volta avremmo fondato delle riviste, ci saremmo uniti per fare uscire una certa idea di fumetto, ora siamo tutti autori, è bello, ma così facendo è sparito proprio quel lavoro di bottega che garantiva la formazione di qualcosa come una scuola, una generazione, un movimento.
Claudio, sei d’accordo?
Sì, direi proprio di sì, ma non credo che sia una dinamica esclusiva del fumetto. Penso al mondo dei centri sociali, che ho raccontato da poco nel mio atlante: quando ho iniziato ad essere coinvolto e a frequentarli, a livello musicale c’erano gli Assalti frontali, le Posse, realtà che in qualche modo erano un frutto reale dei centri sociali. Ora invece, restando in quel modo di fare musica, un Caparezza può fare un album direttamente a casa sua. Riportando il discorso sui fumetti, prima per fare una rivista ti mettevi insieme a molti altri e con fatica, sia economica che produttiva, mettevi insieme il materiale e uscivi con una rivista. Ora ti basta un computer, puoi fare tutto da solo. Io credo che sia questa l’atomizzazione che stiamo vivendo nel mondo dell’arte. Poi da quei prodotti finiti si creano reti e contatti, ma non nascono più — o lo fanno con sempre più difficoltà — da un lavoro realmente collettivo, di “movimento”.
«Hai ragione Claudio», interviene Tito, «e ora voglio fare una piccola autocritica e mi chiedo: ma come è successo che io, in studio, non abbia un assistente? Ma non un ragazzo che allarghi quella categoria schiavizzata che chiamano stagisti, no, uno da pagare, che si prenda una parte dei soldi che guadagno e che mi rifinisca il lavoro, imparando nel contempo come si fa. La risposta che mi do riguarda proprio l’autorialità: essendo diventati tutti autori abbiamo bisogno che ogni singolo tratto del nostro lavoro, ogni molecola sia al 100% nostra, che porti il nostro segno».
«Eh sì, il segno, anche perché è proprio quello che vendiamo», interviene Calia.
«Sì», continua Tito, «però pensiamo a un atuore come Pratt, lui non aveva alcuna difficoltà a farsi disegnare da altri i veicoli, come i treni, o ancora, a un autore come Magnus che non aveva problemi a disegnare un Tex facendosi fare i cavalli da altri».
«Certamente Tito», interviene Calia, un po’ ridendo, «ma c’era un’economia di scala diversa. Ora, tu dovresti prendere un assistente perché puoi, io cosa gli darei? Cosa potrei dividere con lui?»
«Non la faccio una questione di soldi e basta però», risponde Tito, «è una questione di principio. Io effettivamente non saprei cosa fargli fare a un assistente. I dialoghi? Assolutamente no, quelli sono un tratto distintivo. Le descrizioni? Troppo importanti, sono la base del mio lavoro. I soggetti? Ma siamo fuori, mica mi faccio scrivere i soggetti da altri. Cosa gli farei fare».
Ridono entrambi…
«Però per Diabolik però lavori così…», fa Calia.
«È vero», ammette Tito e pensa, per qualche secondo, allargando un sorriso come quando nella memoria si rivivono i bei ricordi. Poi continua: «Diabolik è ancora fatto in questa maniera: uno fa il soggetto, uno la sceneggiatura, e poi la revisione è molto intrusiva. Uno fa i retini, uno le chine, uno il lettering. Diabolik è veramente una grande comune in questo senso, ma è una cosa rara, e non va nella direzione per cui fai un lavoro di bottega. Io però il discorso lo facevo per dire che noi ora insieme stiamo benissimo, condividiamo tantissimo, ma poi quando si tratta di tornare a casa ognuno va per la sua strada, mica ci mettiamo a fare una rivista».
«Ah ah ah», Calia ride di gusto e tira una pacca sulla spalla di Tito: «Quando vuoi…», dice, finendo il bicchiere, ma non la sete.
«Eh eh eh», ride anche Tito, che poi continua: «oggi forse è quasi più facile mettere in piedi una casa editrice intera, anche se mi sa che è un po’ difficile trovare un editore che ti faccia fare una rivista con delle vere idee dentro».
«Letteratura e fumetto sono linguaggi differenti», dice Calia, «forme differenti, sarebbe come paragonare letteratura e cinema, sono entrambe arti narrative, ma come puoi paragonarle?»
Claudio, cambiamo argomento: negli ultimi due anni sono nate non poche polemiche su una fantomatica battaglia per la supremazia tra il fumetto e il romanzo. Che ne pensi?
Io questa cosa della sfida tra fumetto e letteratura proprio non la capisco. Pensa che qualche giorno fa ero all’Università di San Marino insieme a un amico poeta, Lello Voce, a fare letture di un progetto con cui, un paio di anni fa, ho vinto il premio Napoli, che è un premio letterario. Eh eh eh, e l’ho vinto facendo una cosa tra fumetto e poesia. Credo che quello di cui parli sia un problema che riguarda soprattutto il mondo del fumetto, perché nel mondo della letteratura non ho mai visto questo atteggiamento. Mi sembra evidente che siano linguaggi differenti, forme differenti, sarebbe come paragonare letteratura e cinema, sono entrambe arti narrative, ma come puoi paragonarle?
«A un premio che sceglie i migliori libri secondo me può partecipare anche un libro di ricette di cucina, figuriamoci un fumetto. È narrativa. Sono libri, e il lettore in libreria se li vede uno accanto all’altro»
E quindi cosa ne pensi della partecipazione di Gipi e Zerocalcare al premio Strega?
A me per esempio non scandalizza per niente il fatto che un fumetto possa essere candidato al premio Strega, per me è veramente un liberi tutti. A un premio che sceglie i migliori libri secondo me può partecipare anche un libro di ricette di cucina, figuriamoci un fumetto. È narrativa. Sono libri, e il lettore in libreria se li vede uno accanto all’altro. Poi, certo, non sono uguali, ma allora perché non inventarsi un premio di narrativa inclusivo. E poi, se è il lettore che lo candida, qualsiasi sia la sua scelta per me ha ragione, perché per me il lettore è come il cliente, ha sempre ragione. E poi se questo serve a fare sì che un lettore si trovi in mano un fumetto in più, be’, io sono solo contento.
«Chi pensa “questo fumetto è così bello che può gareggiare con un romanzo”, a me fa ribollire il sangue»
E Tito, cosa ne pensi?
Io non voglio entrare nel merito e nel meccanismo, io polemizzo sulla lettura che si dà a questa cosa: chi dà una lettura come “questo fumetto è così bello che può gareggiare con un romanzo”, a me fa ribollire il sangue. Anche a me non fa effetto che un fumetto entri nella selezione di un premio letterario, mi fa rabbia se si trasforma una categoria in un segno di valore, perché l’appartenenza alla categoria romanzo non significa proprio per niente che quello sia un bel prodotto.
«Anche perché ci sono romanzi orribili», gli fa eco Calia, «esattamente come ci sono fumetti orribili, sarebbe bello si iniziasse a fare la divisione sul bello e brutto, e non sul romanzo e fumetto».
«Esatto!», esclama Tito. «Stare a dissertare sul fatto che il regolamento dello Strega permetta o no la partecipazione di un fumetto è la cosa meno interessante del mondo, è tempo perso. Tutto ciò che cerca invece di rivendicare che un fumetto sia abbastanza bello per gareggiare con un romanzo mi sembra una cartina di tornasole che ci fa capire come ci sia una svalutazione di principio della forma fumetto, e questo, chiaramente, non mi sta bene».
«Il problema è dello Strega, che dovrebbe domandarsi perché le grandi narrazioni non siano più una prerogativa del romanzo»
«Sapete una cosa?», lo interrompe Claudio Calia, con il sorriso malandrino di chi ha più voglia di bere un’altra birra che di perdere tempo in questioni ininfluenti «Io sono di quelli che non si scandalizzerebbe nemmeno se tra dieci anni lo Strega lo vincesse un videogioco, perché no? È una delle forme di narrazione delle storie della contemporaneità». E poi continua, più serio: «Forse il problema dello Strega, e dei premi letterari in generale, è un altro: forse dovrebbero domandarselo per primi loro che cosa è successo e perché le grandi narrazioni non sono più una prerogativa del romanzo».
Secondo te, che cosa è successo?
Ma guarda, per me è solo un bene, vuol dire ci stiamo evolvendo e diversificando: c’è il fumetto, c’è il videogioco, c’è il romanzo, ma c’è anche la poesia, la poesia orale, il fruitore finale può scegliere quello che preferisce, io, come autore, non vedo proprio il problema.
Dall’altra parte del tavolo Tito annuisce, mentre sul tavolo i bicchieri, ormai vuoti, suggeriscono che è tempo di spegnere il microfono e continuare a chiacchierare d’altro.