Cosa resterà di Expo è ancora presto per valutarlo. Di sicuro, nelle case di molti dei visitatori è rimasto un oggetto preciso: il cappello a cono vietnamita (nome originale: nón lá). Viene indossato nelle risaie, per difendersi dal sole e dalla pioggia, senza distinzione di sesso ed età, ed è stato presentato (e venduto) a Expo dal padiglione del Vietnam come «simbolo del duro lavoro che c’è dietro al lavoro di chi produce il cibo», un modo per ricordarlo. In un certo senso, un omaggio (che, si spera, sia stato colto).
Di sicuro un bel ricordo, ma non certo un affare. Distribuito a manciate sul piano superiore del padiglione, il nón lá costa la bellezza di 10 euro, prezzo tutto sommato adeguato a un’esposizione che non ha mai fatto dei prezzi popolari la propria battaglia. In patria, però – almeno secondo questo sito – lo stesso cappello viene venduto a un prezzo di 20mila song, cioè poco più di 80 centesimi di euro. Come si scrive nell’articolo, «non sono molti soldi, nessuno diventa ricco. Ma almeno ci si vive». La sua creazione è un sapere che «viene tramandato di generazione in generazione».
Come idea, è andata benissimo. Il nón lá è, a uno sguardo superficiale, uno degli oggetti più venduti a Expo. Cifre ufficiali, però, al padiglione non ne vogliono dare. È stato scritto che si è arrivati a quota 3.000, ma l’ufficio stampa del Vietnam è pronto a smentire: «Questo dato non è ufficiale. Non è chiaro da dove provenga, se non è stato addirittura inventato». Ma è di più? «Presumo di sì», ma oltre non ci si sbottona. Quello che è certo è che il 17 ottobre, 70esimo dell’unificazione nazionale, a Expo è stato donato gratis. «Ne abbiamo regalati 500». Finché non si avranno i dati ufficiali, resteranno, insieme ai cappelli, le congetture.
I nón lá venduti a Expo, secondo l’ufficio stampa del padiglione, «provengono da Chuong», uno dei villaggi a nord del Paese, a pochi chilometri sotto Hanoi. Qui la tradizione è centenaria, è ancora viva, ed è a impronta artigianale. Per creare il cappello occorre, attraverso una tecnica particolare, piegare foglie di palma intorno a cerchi di bambù, che ne costituiscono l’ossatura. Questo li rende leggeri e resistenti. Vengono davvero tutti da lì? «All’inizio non ci aspettavamo questo successo. Poi abbiamo dovuto fare nuovi e continui ordinativi». Oltre al modello standard, ne esistono diverse qualità. Ad esempio, c’è il “cappello con la poesia”, il nón bai tho. Vengono lasciati scritti nello strato inferiore della superficie alcuni versi, che appaiono con la luce del sole. Sono quelli più raffinati.
C’è anche una leggenda che ne racconta l’origine. «Il cappello apparve come dono di una dèa», che intervenne, nei tempi antichi, «per fermare un’alluvione. In testa aveva proprio questo cappello». In suo onore «furono costruiti templi e luoghi di culto». È alla dea-che-protegge-dalla-pioggia (così si chiama) che tutti i visitatori di Expo devono il loro cappello.
La dea, però, non ha protetto il padiglione Vietnam da alcune polemiche, piuttosto furiose, che hanno preso fuoco in patria ad agosto. All’origine il post di una visitatrice, Nguyen Thi Oanh, che si diceva «indignata» dal modo in cui si era scelto di rappresentare la cultura e l’identità vietnamita all’estero. Addirittura, parlava di “vergogna nazionale”. Si puntava il dito contro «l’assenza di una bandiera vietnamita» (e pazienza), e poi «la totale mancanza di professionalità nel modo in cui vengono presentati prodotti e cibo tradizionale». Un padiglione «disordinato, spoglio e scadente». In cui il cibo «non c’entra nulla con quello locale», addirittura con «piatti mai sentiti prima». E le opere esposte sono di una qualità «che sarebbe considerata bassa anche nelle bancarelle del mercato di Ben Thanh», citando l’antico, popolare e molto turistico mercato nel centro di Ho Chi Minh. Tra questi prodotti di cattiva qualità non si salvava nemmeno il povero cappello a cono.
Un padiglione «disordinato, spoglio e scadente». In cui il cibo «non c’entra nulla con quello locale»
Alla pioggia di like che ha coperto il post, hanno risposto le autorità, preoccupate dal tono che prendevano i commenti (alcuni puntavano il dito contro il partito comunista, colpevole di aver speso troppo e male per l’evento: 3 milioni di dollari). Il problema è che lo hanno fatto in modo diviso. Nguyen Trung Khanh, a capo del Dipartimento di Cooperazione Internazionale, ha definito le critiche «ingiuste, e inaccurate». Con la colpa di «far venire meno il sostegno al Paese». Ha cercato di screditare l’autrice del post: «le foto, chissà quando le ha scattate. Magari all’inizio, appena l’Expo era cominiciato», e poi assicurando che «di tutte le cose di cui si è lamentata, ora non ce n’è più nessuna». Anche i rappresentanti del governo che hanno visitato il sito, continua, «hanno dato un riscontro positivo». E questo, insomma, dovrebbe bastare.
E invece no, perché Tran Van Tan, rappresentante del Vietnam a Expo ed ex-direttore del Vefac (Vietnam Exhibition Fair Centre), ha ammesso tutto. «È vero, ci sono stati dei problemi». Ma, dopo il suo intervento, «tutto è stato sistemato». Il padiglione ha avuto dei problemi, certo, ma «non tutto può essere amministrato bene, a così grande distanza». E poi la ditta che doveva occuparsi della fornitura dei pasti, la Runam, non era in grado di soddisfare «i requisiti, molto severi della legge italiana». Per cui si è provveduto con un sostituto, trovato dall’ambasciata a Roma, «che ha dovuto ingranare». Il caso, stavolta, è stato chiuso, con un intervento «sul posto».
Ma ormai, di queste polemiche, rimane ben poco. Portate via anche loro dalla fine di Expo. Nelle case dei visitatori resta appeso, a prendere polvere, il vero simbolo della manifestazione, che racchiude in sé il lavoro duro dei contadini, la tecnica artigiana a pochi soldi, il cibo e la lotta contro gli elementi: il cappello vietnamita. Con i suoi piccoli misteri, e un messaggio che, in fondo, è molto importante. Sperando che sia stato colto.