Caro direttore, sugli expat e sul caso Roberta D’Alessandro hai torto

Risposta all'editoriale di Francesco Cancellato: espatriare è l'unico modo per essere liberi di criticare la ricerca in Italia

Caro Direttore,

so che il dissenso e lo scambio di opinioni non sono un problema per te. E allora mi permetto di scriverti questa lettera. Il tuo commento (leggilo qui) alla vicenda della ricercatrice Roberta D’Alessandro mi ha lasciato l’amaro in bocca.

Più di un anno fa abbiamo creato insieme una rubrica con cui raccontare e capire a fondo il fenomeno di cui Roberta stessa è parte: la migrazione che porta sempre più giovani e trentenni italiani oltre i confini italiani. Abbiamo vissuto insieme il percorso che ha portato me stessa a dire addio all’Italia e alle sue logiche assurde. E non posso accettare di sentir criticare una ragazza che finalmente ha potuto prendersi una rivincita, che ha urlato al mondo con orgoglio che esiste un posto sulla terra in cui poter sfogare le proprie potenzialità. Un luogo che non ti costringa a un’esistenza larvale dopo averti dato, in cinque anni di università, bellissime ali. Un posto in cui i padri risevano i pochi posti rimasti solo ai propri figli.

Il gesto di Roberta non è nulla di eccezionale, scrivi. Non è un atto eroico. Piuttosto, quella ragazza avrebbe dovuto denunciare prima di andarsene. Così sì che avrebbe fatto la differenza.
Ma quanti casi di corruzione finiscono ogni mese sulle prime pagine dei giornali italiani, caro Francesco? A quante bufere abbiamo assistito negli ultimi anni? Politica, amministrazione pubblica, università. Quante volte hai sentito raccontare tu stesso dei soprusi che avvengono negli uffici in nome di logiche clientelari che da quei luoghi dovrebbero essere assenti? E cosa è cambiato? Nulla. Assolutamente nulla. Se Roberta avesse fatto i nomi prima di andarsene, sarebbe cambiata non l’Italia ma il suo destino. Avrebbe detto addio per sempre ai suoi progetti professionali e sarebbe stata una delle tante lavoratrici sovra-qualificate e frustrate.
Nessun giovane italiano farà mai i nomi dei propri aguzzini se non ha deciso di partire. Perché se lo fa, sa che deve rinunciare alla carriera che intende perseguire. Questo piuttosto, lo può fare chi se ne è andato a costruire stabilità economica e di vita altrove. Solo chi parte ha la forza di denunciare, esattamente come ha fatto Roberta. E non solo perché si è ormai lontani.

Sono convinta che i giovani italiani debbano partire. Devono lasciare l’Italia e le sue logiche assurde. Devono andare all’estero a dimostrare a se stessi e al paese quanto valgono, cosa possono ottenere se gli si lascia spazio per esprimere il proprio potenziale. Devono varcare i confini per costruirsi un’armatura solida, fatta di indipendenza economica, e soprattutto mentale. Devono scoprire che esistono luoghi in cui una vita “normale” è possibile. Dove le regole esistono e sono rispettate per il bene di tutti. Dove fare una dichiarazione dei redditi non ti fa venire il mal di testa e ti costringe a pagare le salate parcelle di un commercialista. Solo così possono poi sperare di tornare e portare cambiamento vero nel paese.
Non sai quante storie ho sentito intervistando expat italiani qui a Londra e altrove: scuole che offrono supplenze gratuite ad aspiranti insegnanti. E aspiranti insegnatti costrette ad accettarle per poter salire in graduatoria. Amici che ti passano davanti perché hanno la conoscenza giusta, soprusi solo perché il tuo capo è amico o parente di quella tale persona. Ma finché i giovani restano in Italia non possono denunciare. Perché da quel sistema, per quanto corrotto, dipendono.
Non credo che Roberta avrebbe potuto pubblicare lo stesso post se fosse rimasta in Italia. Lo ha fatto in virtù dei risultati raggiunti. Grazie allo stipendio con cui può pagarsi affitto e spesa ogni mese senza dipendere da nessuno. E grazie alla fiducia in sé ottenuta in una nazione che le ha permesso di realizzare il suo potenziale.

Sono d’accordo con te, tuttavia, quando dici che sta a noi giovani provare a cambiare le cose. Ma non si può pretendere che a immolarsi a vittima sacrificale sia una sola persona. Non si può pretendere che lo si faccia rinunciando per sempre ai propri sogni di carriera.
Forse i tempi non sono ancora maturi perché questo accada. Forse, serve trovare un modo di azione coeso. Poco più di un mese fa il suicidio di Luana Ricca, chirurgo rientrato in Italia dopo anni di carriera e successi professionali in Francia, ha urlato al mondo la fatica che si fa a tornare e tentare di cambiare le cose. Ci si sente in gabbia in Italia. E se si è da soli contro tutti, alla fine si rinuncia.
Forse, in questo inizio di secolo, dobbiamo trovare un modo nuovo di intervento sociale. Forse, in questo inizio di secolo, noi giovani e trentenni abbiamo bisogno di riscoprirci società, gruppo, e non solo individui concentrati su noi stessi, sulle nostre emozioni, le nostre ambizioni individuali. Forse dobbiamo ancora scoprire come Agire.
Ma se durante il tragitto capita che qualcuno di noi si tolga qualche sassolino dalla scarpa, per cortesia, non lo si biasimi dandogli del codardo. Partire, credimi, richiede davvero tanto coraggio.

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