Condanne a morte “made in Japan”

Non solo Iran: anche in Giappone le esecuzioni delle condanne a morte avvengono tramite impiccagioni. Sedici negli ultimi cinque anni. E Amnesty insorge

Quando in Iran vengono eseguite delle impiccagioni, molte persone inorridiscono e condannano: no al trattamento inflitto, no alla forma di punizione. Eppure, quando la stessa cosa avviene in Giappone nessuno dice nulla. Come si spiega questa diversità di trattamento?

In realtà, le impiccagioni in Giappone non sono un fatto molto noto. A differenza dell’Iran, nel Paese del Sol Levante le esecuzioni sono tenute segrete. Come spiega Amnesty, non vengono informati né i media né la popolazione, e nemmeno i prigionieri stessi, avvisati solo poche ore prima – a volte non vengono avvisati neppure. I loro familiari e i legali sono informati solo qualche ora dopo.

Eppure dal 2012 a oggi, più o meno da quando Shinzo Abe è premier, ci sono state 16 esecuzioni capitali. Le ultime due sono avvenute poco prima di Pasqua 2016, con la morte di Yasutoshi Kamata (76 anni) che non era proprio un santo, visto che era stato condannato per cinque omicidi nel 2005 e di Junko Yoshida, di 56 anni, condannata per avere ucciso due persone nel 2010. Yoshida è stata la prima donna a essere impiccata dal 2012.

In ogni caso, anche se la pena di morte è sempre meno praticata nel mondo (al momento l’hanno abolita in modo completo 102 Paesi, mentre altri 140 la mantengono solo a livello formale), i giapponesi si dichiarano, in maggioranza, favorevoli al suo mantenimento. E il premier Shinzo Abe, nonostante le denunce di Amnesty, segue la loro volontà.

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