TradizioniIl corpo e il sangue di Cristo: la religione del popolo, tra flagellazioni e posseduti

L’antropologo Giovanni Vacca: “Il mito della morte e resurrezione è presente in diverse religioni, ma nel Vangelo è descritto con dovizia di particolari e per questo si presta a essere emulato”

Puntuali, come ogni anno, il sabato santo i vattienti di Nocera Terinese, in provincia di Catanzaro, percorrono le vie del paese percuotendosi le cosce e le gambe con un disco di sughero ricoperto da 13 schegge di vetro. Tante quanti erano Cristo e gli apostoli. Il sangue scorre a fiumi, colorando le strade di rosso. Qualche ora prima, nella notte del giovedì santo, le stesse immagini si vedono a pochi chilometri di distanza, a Verbicaro, Cosenza. I vattienti vestiti di rosso si colpiscono con il cardiddru, mentre gli uomini intorno soffiano del vino rosso sulle ferite. Passata Pasqua, il giorno dopo, in provincia di Napoli, migliaia di persone si riuniscono per la festa della Madonna dell’Arco. Tra canti, ceri e grandi costruzioni votive, in tanti finiscono in preda a crisi mistiche che sembrano scosse elettriche: urlano, scalciano e invocano la grazia.

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Nel Mediterraneo dei mille santi e madonne, la Pasqua è l’occasione privilegiata per mettere in scena riti corporei e sanguinari. Dal meridione d’Italia alla Spagna fino all’America latina. A metà tra religioso e pagano, la passione di Cristo viene riprodotta con rappresentazioni teatrali, processioni ed emulazioni della storia raccontata nel Vangelo. Tradizioni popolari che la Chiesa tollera ma che, in fondo, maldigerisce. Perché se è vero che di religione parliamo, è anche vero che questi riti ruotano tutti intorno al corpo. «Nel mondo popolare, la corporeità viene vissuta in maniera più dirompente, al contrario di quello che vorrebbe la pedagogia cristiana, portata invece a valorizzare l’introspezione», spiega l’antropologo e musicologo Giovanni Vacca, autore di un prezioso volume, Nel corpo della tradizione (Squilibri), in cui spiega e raccoglie i mille rivoli della tradizione popolare religiosa del Mezzogiorno d’Italia.

Quindi, come spieghiamo riti come quello dei vattienti in Calabria?
Quello della morte e della resurrezione è un mito che si trova in tante religioni. Ma quella di Cristo, che conosciamo dai Vangeli, è una narrazione talmente verosimile da prestarsi particolarmente a essere teatralizzata, cioè realmente emulata e rivissuta in forma rituale. E nel mito cristiano, in più, cambia il rapporto tra morte e liberazione dal male. L’antropologo René Girard, a questo proposito, ha scritto che per la prima volta nella storia la divinità che muore per liberarci dalla negatività non è colpevole: non è, cioè, un capro espiatorio. Come il Carnevale, ad esempio, che nella cultura popolare viene invece ucciso proprio perché colpevole.

Quindi in queste manifestazioni c’è una forma di identificazione con la divinità che si venera.
L’identificazione dei fedeli nel Cristo sofferente porta a una serie di manifestazioni simboliche in cui il ruolo di protagonista è assunto dal corpo del devoto. Un corpo che, in vari modi, assume su di sé la sofferenza della divinità. Pasqua in questo senso è sicuramente un’occasione privilegiata, ma questo tipo di riti non ci sono solo nel periodo pasquale.

Ad esempio?
I battenti, per esempio, non sono solo quelli che si vedono il Venerdì santo a Nocera Terinese o a Verbicaro in Calabria. Una manifestazione, simile nei contenuti, si tiene ogni sette anni nel mese di agosto a Guardia Sanframondi, in provincia di Benevento, per la festa dell’Assunta. L’uso simbolico del corpo non è esclusivo dei riti pasquali e, tra l’altro, il percuotere o il fustigare il proprio corpo non è l’unico comportamento devozionale che si può osservare. Nella festa della Madonna dell’Arco, che si tiene il giorno dopo Pasqua in provincia di Napoli, molti fedeli vivono delle crisi che a volte sembrano assumere la forma estrema della possessione.

Flagellanti, battenti, spinati, possessioni… ma anche i devoti della Madonna nera di Moiano, in provincia di Benevento, che strisciano con la lingua fino all’altare… sono tutti comportamenti eterodossi rispetto alla liturgia ufficiale

A quanto pare, tutto ruota attorno alla corporeità, quindi. Al contrario di quanto si sarebbe portati a credere, trattandosi di religione.
È il cattolicesimo popolare. Nella cultura popolare il corpo ha una funzione espressiva più rilevante rispetto a quella che ha nella cultura non popolare, dove per “popolare” intendiamo la cultura prevalentemente orale di quelle che un tempo si definivano “classi subalterne”. Nel mondo popolare, il corpo viene utilizzato e vissuto in maniera più diretta e dirompente rispetto a come lo vivono e lo utilizzano quelle componenti della società in cui esiste una maggiore capacità di controllo grazie a una cultura costruita sull’interiorizzazione e sull’introspezione. Atteggiamento che, del resto, è in linea con la pedagogia cristiana, portata anch’essa a valorizzare l’introspezione.

Come spieghiamo quindi la centralità del corpo?
Nella cultura popolare, c’è un forte uso segnico-simbolico del corpo e questo ha maggiore visibilità nei momenti rituali collettivi, come il rito pasquale, che legittimano e danno significato a questi comportamenti. Nelle processioni o nelle cerimonie, pasquali e non, in molte parti del Sud Italia il rito fa da codifica a una serie di segnali corporei: flagellanti, battenti, spinati, possessioni… ma anche i devoti della Madonna nera di Moiano, in provincia di Benevento, che strisciano con la lingua fino all’altare… sono tutti comportamenti eterodossi rispetto alla liturgia ufficiale e che assumono significato nella dimensione collettiva.

C’è il corpo, ma è un corpo sofferente.
Quello della sofferenza di Cristo è certamente un momento speciale, ma tutti i pellegrinaggi cattolici, se ci pensiamo, avvengono nel segno della sofferenza. Il devoto, lo diceva con una grande intuizione l’antropologa Annabella Rossi, “offre alla divinità la propria sofferenza”.

Da dove nascono queste manifestazioni?
Le radicii vanno ricercate in antiche modalità rituali, passate attraverso la religiosità medievale e, soprattutto, attraverso quel grande momento di ‘riplasmazione’ rappresentato dalla Controriforma seguita al Concilio di Trento.

Rituali che non si trovano solo in Italia.
Questi comportamenti appartengono a gran parte della religiosità mediterranea. Si ritrovano dall’Italia meridionale alla Spagna, ma anche in alcuni Paesi arabi e del Maghreb. Anche nell’Islam ci sono forme di espressione corporale della religiosità. C’è un fondo comune arcaico che poi la modernità ha separato nelle divisioni di Stato.

Sono comportamenti che appartengono a gran parte della religiosità mediterranea. Si ritrovano dall’Italia meridionale alla Spagna, ma anche in alcuni Paesi arabi e del Maghreb. Anche nell’Islam ci sono forme di espressione corporale della religiosità

E la Chiesa come vive queste manifestazioni?
La chiesa in teoria queste manifestazioni non le vorrebbe, per cui cerca di circoscriverle. Ha quasi sempre un ruolo di mediazione. Per quello che ho potuto osservare, si osteggiano alcune manifestazioni solo quando assumono grande visibilità pubblica. Com’è accaduto in passato con il culto delle anime del Purgatorio a Napoli. Nel 1968 ci fu addirittura un bando per proibire questo culto. Oggi quella chiesa è una sorta di museo in cui si paga il biglietto per entrare, il fenomeno è stato quindi controllato e arginato dai crismi della cultura ‘ufficiale’.

Alla Madonna dell’Arco, ad esempio, arrivano ogni anno quasi 100mila persone: la chiesa cerca di contenere il fenomeno, di neutralizzarne la carica estrema. Quando i devoti entrano nella crisi di possessione, vengono portati fuori. C’è un tentativo di controllo molto sottile, ma la cosa non viene impedita.

C’è quindi una compenetrazione tra la festa popolare e quella religiosa?
In realtà molte di queste manifestazioni avvengono sul sagrato della chiesa. Se ci pensiamo, si tratta di uno spazio limite in cui arginare questi riti. Ma può anche accadere che in alcuni casi si superi il diaframma e si entri in Chiesa. Ci sono feste in cui la tammurriata viene fatta in chiesa, anche se solo per pochi minuti: a Somma Vesuviana, per esempio. Le crisi di possessione della Madonna dell’Arco avvengono in chiesa. Oppure pensiamo al culto del pesce di San Raffaele, a Napoli, che è un’esplicita simbologia fallica. Le donne che devono trovare marito o rimanere incinte il 24 ottobre si mettono in processione e vanno a baciare la statua del pesce, legato a un episodio biblico in cui l’arcangelo Raffaele protegge il giovane Tobia dall’aggressione di un pesce in un fiume. Tutto questo avviene in chiesa: la simbologia è chiara, ma mascherata sotto le spoglie del culto a un arcangelo resta innocua. E ancora: pensiamo alla processione nella chiesa della madonna di Montevergine, la cosiddetta madonna dei femminielli, degli omosessuali, con canti e balli nel giorno della Candelora. Il Sud è pieno di culti eterodossi: è il cattolicesimo popolare. E finché la cosa è contenuta, la Chiesa li tollera e li controlla allo stesso tempo.

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