«Il male si ferma non restituendolo». Gherardo Colombo ha fatto il magistrato per trentatré anni (Mani Pulite, P2, delitto Ambrosoli), fino a quando, nel 2007, con una lettera al Consiglio Superiore della Magistratura, non ha rassegnato le sue dimissioni. Per questo è stato definito “il magistrato pentito”: d’effetto, ma forse improprio. «A un certo punto ho sentito che era necessario fare altro, risalire fino all’ingorgo principale», ci racconta. Molto prima che nel giustizialismo, nei processi dati in pasto al sensazionalismo mediatico, nell’inefficienza della macchina giudiziaria e di quella penitenziaria, la giustizia s’incaglia, secondo Colombo, nel rapporto tra i cittadini e le regole, innestato sul principio (erroneo) per cui la regola impone, anziché permettere (a questo ha dedicato diversi libri, tra cui Sulle regole e Il perdono responsabile).
E fintanto che la regola imporrà attraverso l’intimidazione, la paura della punizione in cui incorre chi la infrange, sarà sempre inadeguata a «stimolare il rispetto della dignità propria e altrui». Ora che la tolleranza zero e l’inasprimento delle pene vengono invocati a gran voce nel dibattito pubblico sulla criminalità, la libertà vigilata genera indignazione (caso Doina Matei) e ci si arrischia addirittura a chiedere la pena di morte (lo hanno fatto i familiari di Luca Varani ucciso durante un chemsex), l’impegno di Colombo sembra quasi donchisciottesco. Eppure, questa settimana, alla sentenza a favore di Breivik, il terrorista norvegese (uccise 77 persone il 22 luglio 2011 sull’isola di Utøya) che ha accusato lo Stato di detenzione inumana e degradante, il familiare di una delle vittime ha reagito dichiarando: «Questa è la prova che il nostro sistema giudiziario funziona e fa rispettare i diritti umani».
Non siamo più capaci di distinguere tra giustizia e vendetta, in Italia?
Semplicemente, si pensa che siano la stessa cosa.
Perché?
Tradizionalmente, la giustizia è sempre stata considerata una vendetta istituzionale, il mezzo attraverso cui la vendetta privata è passata nelle mani dello Stato che ha così acquisito il monopolio della violenza e l’ha esercitata sottraendola ai singoli e svolgendo una funzione terza nel conflitto tra le parti, costituendosi, così, giudice.
C’è stato un vizio di forma nell’elaborazione culturale del concetto di giustizia?
Guardiamo la storia. Il Codice di Hammurabi introdusse una limitazione alla vendetta: prima, chi subiva un torto poteva vendicarsi senza limiti. Con la legge del taglione, se uno ti cavava un occhio non potevi sterminargli la famiglia, ma solo riservargli il medesimo trattamento. Sebbene alternative siano state espresse a più riprese nel tempo (soprattutto nei secoli più recenti), la cultura si è fermata lì e non è stata capace di aprire lo sguardo verso un’idea diversa di giustizia, che è, peraltro, quella adottata dalla nostra Costituzione.
Dopo le inchieste su Mani Pulite, P2 e il delitto Ambrosoli, Colombo nel 2007 rassegna le dimissioni: «A un certo punto ho sentito che era necessario fare altro, risalire fino all’ingorgo principale». Molto prima che nel giustizialismo, la giustizia s’incaglia nel rapporto tra i cittadini e le regole
Si riferisce alla rieducazione?
Non solo. La rieducazione deve accompagnarsi al divieto di trattamenti contrari al senso di umanità: la pena non può includere violenze fisiche, psichiche o morali nei confronti di persone la cui libertà sia limitata. Questo è già sancito dall’articolo 27 e 13 della nostra Costituzione ed ha una prospettiva la cui radice sta nel riconoscimento della dignità della persona in quanto tale (articolo 3). Ma se la Costituzione non è conosciuta, discussa e approfondita, si continua a ragionare con le regole del taglione, con conseguenze che si riverberano non solo sulla pena, ma pure sulla discriminazione (di genere, religiosa, etnica), legittimandola. Fino all’arrivo della Costituzione – e di fatto anche dopo – la discriminazione è stata un valore.
Per Simone Weil la pena che risarcisce un danno risponde a «un bisogno dell’animo umano». C’è poco di culturale.
Il risarcimento non si attua restituendo il male al male. In molti Paesi è applicata, in alternativa alla giustizia retributiva, quella riparativa, che è il suo opposto. La radice del pensiero per cui il male si ferma restituendolo è quella che giustifica, in ultima istanza, la pena di morte.
Sul fronte della lotta al terrorismo è emerso il problema della radicalizzazione nelle carceri. Londra propone di tenere lontani dalla detenzione i soggetti più a rischio.
Pensi al terrorismo degli Anni di Piombo: a mio parere non lo abbiamo sconfitto mettendo i terroristi in prigione, bensì perché si è giunti a una forte coesione sociale nel giudicarli negativamente. Alcune parole e alcuni atteggiamenti delle vittime hanno segnato l’intimità dei terroristi.
«Il risarcimento non si attua restituendo il male al male. La radice del pensiero per cui il male si ferma restituendolo è quella che giustifica, in ultima istanza, la pena di morte»
In alternativa alla pena detentiva cosa c’è per chi rappresenti un pericolo per la collettività?
Chi è pericoloso deve stare necessariamente da un’altra parte, ma in un posto civile, dove siano rispettati i suoi diritti (allo spazio vitale, all’affettività, alla salute, all’igiene) che non confliggano con la sicurezza dei cittadini. Sono convinto che peggio tratti una persona, più alimenti il suo rancore nei confronti del consesso sociale.
Lei è dubbioso rispetto all’istituto carcerario?
Penso che sia dannoso. Spesso è una vera e propria scuola di delinquenza: non dipende solo dal trattamento degradante cui al suo interno sono sottoposti spesso i detenuti, ma pure dalla vicinanza degli stessi: è lì che germina la radicalizzazione.
Che ruolo hanno le vittime?
Qualche anno fa, durante un litigio tra due ragazzi, uno di loro rimase ucciso. La madre di quest’ultimo dedicò parole di enorme tenerezza all’assassino. Disse che pensava a quel ragazzo che non aveva voluto uccidere e che avrebbe dovuto portare un peso enorme per tutta la vita. Un amico, invece, dichiarò che quello stesso ragazzo meritava di marcire in carcere per sempre. Il cambiamento di paradigma passa anche attraverso una comprensione e una pietà così profonde.
La legalità coincide con la giustizia?
Dipende da come sono fatte le leggi. Durante il fascismo, era legale attenersi alle leggi razziali: legalità e giustizia non corrispondevano. Oggi, se gli italiani rispettassero la Costituzione, quel binomio sarebbe compiuto. Lo stesso legislatore promulga a volte leggi che non sono in sintonia con la Costituzione.
Il politico segue il pensiero comune dei suoi elettori: lei lo ha dichiarato qualche anno fa.
Certo: se il politico si contrappone al pensiero di chi l’ha eletto, perde voti.
Esiste il male dentro di noi?
Sì. E se lo fronteggiamo con il male, non possiamo che raddoppiarlo.
«Spesso è una vera e propria scuola di delinquenza: non dipende solo dal trattamento degradante cui al suo interno sono sottoposti spesso i detenuti, ma pure dalla vicinanza degli stessi: è lì che germina la radicalizzazione»
Il giudice che ha revocato la libertà vigilata a Doina Matei ha ceduto al sentimentalismo?
Non so quali siano state le motivazioni della revoca, ma se questa non fosse conforme a legge, il giudice non avrebbe agito per sentimentalismo, ma abbandonando la sua imparzialità e indipendenza.
I giudici stanno diventando emotivi?
Se i cittadini chiedono l’inasprimento delle pene, comportarsi di conseguenza non è un atto emotivo, ma profondamente razionale, che però non fa i veri interessi della cittadinanza.
Siamo diventati incapaci di atti di misericordia? Ha qualcosa a che fare con la perdita della fede?
L’Inquisizione bruciava le persone vive e la comunità andava ad assistere. Il Vaticano ha abolito la pena di morte al suo interno in tempi relativamente recenti. A partire dal Concilio Vaticano II, la Chiesa ha mostrato la propria disponibilità ad attuare un ripensamento sulla giustizia retributiva e Papa Francesco testimonia e incarna questa disponibilità. Tuttavia, i promotori della pena di morte in America sono spesso ultracristiani. Più della misericordia, serve riconoscersi nell’altro.
Serve riconoscersi come individui limitati e fallibili?
Il farsi giustizia da sé ha alla sua base il mancato riconoscimento dell’altro come un nostro simile: ci illudiamo, così, che il male sia tutto fuori di noi, nelle persone che hanno sbagliato. Il carcere ci rassicura, ci convince della nostra innocenza.
Insomma ci assolve.
Esatto. I cattivi stanno dietro le sbarre: se noi siamo fuori, significa che siamo i buoni. E siamo buoni anche se proponiamo di fare le stesse cose che hanno fatto coloro che sono dietro le sbarre.
Secondo lei la società civile è responsabile di chi delinque?
Sono molte le persone che dicono «se fossi nato in un quartiere degradato, probabilmente sarei diventato un criminale».
Antipolitica e giustizialismo hanno la stessa matrice?
Penso solo che dovremmo ragionare sul fatto che i politici che ci rappresentano sono il nostro specchio.