Jihad, il pericolo ora arriva dal “tranquillo” Marocco

La maggior parte dei terroristi che hanno colpito recentemente Bruxelles, e prima ancora Parigi, sono originari proprio del Marocco. Paese finora relativamente tranquillo, ma in cui negli ultimi mesi l’islamismo radicale si sta sviluppando sempre più

Abu Ahmed lavorava in un forno e non aveva mai preso in mano un’arma. Non si era mai interessato alla politica e nemmeno si era mai allontanato da Ighmiran, nella regione di Tafersit, a nord del Marocco. Eppure, un giorno ha annunciato al padre che sarebbe partito per la Siria a fare la jihad e per due anni di lui non se n’è saputo più nulla. Era il marzo del 2013, l’anno in cui insieme ad Abu sono diventati foreign fighters centinaia e centinaia di giovani marocchini.

Si è parlato dei combattenti tunisini, il gruppo più numeroso di jihadisti prestati alla guerra santa del califfato, ma anche dal Marocco in molti sono partiti e mai più tornati. Secondo le ultime stime, sarebbero circa 2000 i combattenti, ma non esistono dati certi, così come non esistono database in grado di monitorare la presenza di marocchini in Europa. Quel che è certo è che la maggior parte dei terroristi che hanno colpito recentemente Bruxelles, e prima ancora Parigi, sono originari proprio del Marocco, in particolare della zona del Rif, la regione settentrionale del Paese che va dal Capo Spartel e Tangeri fino al confine con l’Algeria. In molti casi si tratta di giovani che sono cresciuti in Europa e che non hanno respirato gli influssi del Marocco, eppure, anche se in pochi ne hanno parlato, c’è un seme maligno che sta germogliando lentamente anche in quel Paese.

Quel che è certo è che la maggior parte dei terroristi che hanno colpito recentemente Bruxelles, e prima ancora Parigi, sono originari proprio del Marocco

Di questo fenomeno si è occupato il ricercatore marocchino Mohammed Masbah, sociologo del Carnegie Middle East Center di Rabat, autore di uno studio sulle correnti salafite del Marocco e sulle trasformazioni della società, tra radicalizzazione e moderazione. «Esistono molte ragioni che hanno spinto i giovani marocchini ad unirsi alla jihad – spiega Mohammad Masbah, che insegna anche all’università di Rabat – e tra queste certamente ci sono emarginazione sociale, povertà, mancanza di prospettive per il futuro. La scappatoia al disagio e alla disperazione, per molti, era a pochi km di distanza, in un Paese come la Siria che non richiedeva alcun visto».
A questo si sono aggiunte anche delle posizioni ideologiche anti imperialiste che vedevano come nemico non solo gli Stati Uniti, ma tutto l’Occidente. «Le statistiche mostrano che oltre i tre quarti dei terroristi marocchini in Siria e di quelli che si sono poi trasferiti in Europa provenivano da zone emarginate, – ha raccontato Masbah – il che conferma il fatto che non ci sono solo motivazioni ideologiche ma che queste si sono radicate su sentimenti di frustrazione e rabbia generalizzata».

Il Marocco non è stato toccato dai tumulti delle primavere arabe e i media internazionali lo hanno messo in un angolo, classificandolo come Paese tranquillo, in cui le politiche del re Mohammed VI hanno saputo adeguarsi alla situazione. E in parte è anche vero, anche se dall’onda rivoluzionaria è comunque nato un movimento chiamato “20 febbraio”, contro il dispotismo e contro la corruzione. In realtà, già prima del 2011 c’erano scintille di malcontento che si stavano accedendo, dai bordi della periferia di Rabat fino ad arrivare alle zone più rurali del Maghreb.
Furono gli attentati kamikaze del 14 maggio 2003 a Sidi Moumen, sobborgo di Casablanca, a dare una svolta alla politica del governo. «Ci si rese conto che la corrente salafita stava minando il tessuto tradizionale sostituendosi in parte alle politiche del governo e si decise di intervenire», ha precisato Masbah. Da allora, però, le cose non sono migliorate e l’influenza delle rivolte fallite in Libia e soprattutto in Siria hanno alimentato la leggenda del califfato. Se ne parlava già molto prima che Abu Bakr al Baghdadi annunciasse al mondo la creazione del suo Stato e la propaganda passava già di bocca in bocca e di profilo social in profilo social.

«Ci si rese conto che la corrente salafita stava minando il tessuto tradizionale sostituendosi in parte alle politiche del governo e si decise di intervenire»


Mohammed Masbah, sociologo del Carnegie Middle East Center di Rabat

Negli ultimi tre anni schiere di giovani, poveri e senza futuro, si sono lasciati convincere che il re Mohammed non avrebbe mai fatto nulla per loro e che la soluzione era nella guerra per un obiettivo più grande, la jihad globale. Già nel 2013 in Siria viene creato un gruppo chiamato Harakat Sham al-Islam, Movimento dell’Islam nel Levante, formato al 90% da marocchini e guidato da alcuni ex detenuti di Guantanamo addestrati da Al Qaeda nei primi anni del 2000. Lo ha confermato anche Romain Caillet, ricercatore e autore di un rapporto sui jihadisti marocchini in Siria secondo cui è proprio tra il 2013 e il 2015 che avviene il passaggio tra la vecchia guarda di jihadisti e le nuove leve, strappate alla vita quotidiana e coinvolte in una guerra di cui poco prima non sapevano nulla.
Ed è Abu Usama al-Maghribi il rappresentante di questa nuova generazione di jihadisti, lui che aveva solo partecipato a proteste islamiste in Marocco ma che una volta in Siria forgia la sua identità militante. È stato tra i primi marocchini ad unirsi alla jihad in Siria, prima nel Fronte Al-Nusra e poi nell’Isis, ed morto in un agguato il 21 marzo 2014, all’età di 28 anni.

Dopo di lui ce ne sono stanti molti altri. «L’islamismo radicale e tutto ciò che è ad esso legato hanno avuto un grosso sviluppo negli ultimi mesi – ha confermato Mohammed Basbah – e proprio per questo il Marocco è diventato un serbatoio per l’Isis». La monarchia ne è consapevole tanto che tre giorni dopo gli attentati del 13 novembre di Parigi ha alzato al massimo il livello di allerta in tutto il territorio nazionale. Da un lato sta controllando le frontiere e gli snodi più caldi, come le enclavi di Ceuta e Melilla, dall’altro ha aumentato la sicurezza nei luoghi turistici e dove si concentrano le comunità cristiane ed ebraiche. Non è escluso che i jihadisti possano colpire anche nella propria casa, anche se secondo gli analisti l’obiettivo primario, in questo momento è l’Europa.
Ne è convinto anche Mohamed Fizazi, uno dei predicatori più radicali del Marocco arrestato nel 2003 in seguito agli attentato di Casablanca e rilasciato nel 2011 dopo un perdono reale. Da allora si è messo a disposizione del governo e collabora sia con il PJD (Partito Giustizia e Sviluppo), chge con il MUR (Movimento dell’Unicità e della Riforma) per far fronte alla minaccia islamista. Come lui anche altri, Hassan Kettani, Omar El-Haddouchi, tutti ex jihadisti pentiti che ora cercano di reinserirsi nella società.

Dopo due anni anche Abu Ahmed è tornato a casa, provato dalla guerra e deluso dal Califfato.

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