Chiunque usi i social network si è imbattuto, almeno una volta, anche solo per sbaglio, in un hate speech, l’odio verbale che rappresenta ormai una realtà che non si limita solo alla dimensione virtuale di Internet, ma ha conseguenze nella “vita vera”, quella di tutti i giorni, quella che per molti osservatori si dovrebbe tenere ben staccata dall’attività sui social network.
Il dibattito è vivo e riguarda non solo il comportamento delle persone o le regole dell’ecosistema di un social network specifico, ma la vera e propria natura di Internet. Uno degli ultimi contributi sul tema è L’odio online. Violenza verbale e ossessioni in rete di Giovanni Ziccardi (Raffaele Cortina Editore, 2016), un’esaustiva panoramica sul diritto e la giurisdizione in materia di hate speech, di cyber-bullismo e come questi vengono trattati in giro per il mondo.
Nel libro vengono affrontate alcune parole chiave che ritroviamo spesso nella discussione sulla natura della rete – controllo, neutralità, dipendenza, patologia, ossessione, privacy – filtrate dal diritto vigente dei Paesi in cui i casi di violenza vengono registrati. Dagli Stati Uniti, che difendono la legittimità del discorso violento (fino a danno accertato, ovviamente) in virtù dell’incrollabile Primo Emendamento al più controllato approccio europeo, che tende a legare la questione della “libertà di parola” a quella della “responsabilità di parola”.
Uno dei nodi del discorso di Ziccardi è capire dove mettere la distinzione tra la parola online e la conseguenza sulla “vita fisica”: «I crimini contro la mente delle persone […] sono temi che hanno interessato da tempo gli studiosi di diritto penale. La discussione ruota attorno al punto se infliggere “ferite mentali” […] sia comparabile alla disciplina che tutela l’integrità del corpo». Questo perché, tra le altre cose: «Uno degli aspetti più interessanti è che questi tipo di azioni d’odio sono oggi molto diffusi nei confronti di sconosciuti […] Le tecnologie hanno annullato le distanze e hanno consentito, quindi, anche simili comportamenti che sono nuovi, quantomeno nella loro ricorrenza.»
Parlare di barriere o trattare Internet come “altro da sé” appare miope. I casi più eclatanti, da persone licenziate per un tweet sbagliato a ragazzi che hanno tentato il suicidio dopo atti di cyber-bullismo, dimostrano che le conseguenze sul corpo ci sono e sono spesso violente
In Italia ce ne accorgiamo nel dibattito politico o, come in questi giorni, durante una campagna elettorale. I social network sono diventati un campi di battaglia e ogni volta che un politico – non importa la sua notorietà, basta che sia un politico – esprime un’opinione su un argomento spinoso, ecco arrivare un plotone di troll a deviare il discorso con toni violenti e aggressivi. Quello che stupisce non è l’attacco – che può essere sia spontaneo e isolato, sia organizzato e collettivo (legioni di “smanettoni” al servizio di una causa: ce ne sono in qualsiasi schieramento politico) – ma il fatto che questi attacchi siano “palesi”: le persone si firmano quasi sempre con nome e cognome. Non esiste più il fake o l’utente anonimo dietro al nickname (a meno che non si tratti di deep-web, che per limiti di spazio non affrontiamo): sono persone vere con nomi e cognomi, madri e padri di famiglia che uniscono a messaggi violentissimi foto e situazioni amorevoli e straordinariamente quotidiane. Come se altrettanto quotidiana fosse la tentazione di una prevaricazione violenta che annulla un qualsiasi “altro”.
Il libro di Ziccardi riflette su questi aspetti per capire come disegnare la rete del futuro e si lega ad altri contributi sul tema, più vasto, della libertà e Internet. Per Evgenij Morozov, l’utopia della rete non è altro che un calco dell’architettura liberista e libertaria della società (I padroni della rete, Codice 2016) ed è necessario capire da che parte si intende stare. Secondo Jon Ronson la rete, lavorando sulla mancata percezione della “fisicità dei corpi”, toglie l’inibizione del “vivere sociale” (I giustizieri della rete, Codice 2016). Parlare di barriere o trattare Internet come “altro da sé” appare quantomeno miope. I casi più eclatanti – da persone licenziate per un tweet sbagliato a ragazzi che hanno tentato il suicidio dopo atti di cyber-bullismo – dimostrano che le conseguenze sul corpo ci sono e sono spesso violente. L’odio sul web nasce dalla realtà e nella realtà ci ritorna.