Julieta, il nuovo film del regista spagnolo Pedro Almodovar, dopo essere stato presentato in selezione ufficiale al festival di Cannes, arriva nei cinema italiani a partire da giovedì 26 maggio. E i primi che dovrebbero andare a vederselo, magari con un bel blocchetto per prendere appunti, sono i nostri Castellitto, i nostri Virzì, i nostri Muccino o i nostri Ozpetek e via dicendo. Avrebbero un sacco da imparare.
Julieta è una professoressa di mezza età, sospesa tra un presente che più che un limbo sembra un’ascensione al purgatorio, e inseguita da passato misterioso che, piano piano, si dipana in tutto la sua drammaticità. Dolori ovunque: dolori da figlia, da madre, da moglie, persino da nonna. Ogni dolore ha il suo senso di colpa, e ogni senso di colpa, come l’antitesi di un filo di Arianna, conduce al prossimo colpevole, in un teatrino in cui tutti hanno qualcosa da recriminarsi, in cui tutti si affannano a stare a galla, ma in cui non tutti ce la fanno.
In mezzo, buttati nel calderone, praticamente tutti i drammi della vita contemporanea: la pazzia, la marginalità, la solitudine, il tradimento, la malattia, il rapporto con la morte dei propri genitori, dei propri amori, dei propri figli, l’omosessualità, il rapporto tra genitori e figli, l’oscurantismo e il conservatorismo religioso, il dramma del senso di colpa. Roba che se fosse finita in mano a Vladimir Propp, il russo ci avrebbe tratto un’enciclopedia universale delle sfighe.
Insomma, potenzialmente Julieta avrebbe potuto essere una valle di lacrime, una tantalica maletta spaccamaroni e annoda stomaco. Ma invece proprio no. Per due motivi. Primo: dietro alla macchina da presa non ci sono i nostri sopracitati, quelli che le lacrime te le vengono a cercare in fondo agli occhi estraendole con un forcipe lungo un cubito, ma c’è uno che le storie le sa raccontare sul serio, ovvero mister Pedro Almodovar. Secondo: la sceneggiatura non è il frutto della trasformazione di un romanzo di Margaret Mazzantini ad opera della medesima e del marito, ma è nata dal lavoro del regista su tre racconti del premio Nobel Alice Munro.
Il film di Almodovar è tutto scritto. È tutto dialoghi. È praticamente senza colonna sonora. Mette in scena una storia semplice, di gente normale, che prova dolori normali, ovvero inaffrontabili come tutti i dolori, o meglio affrontabili come tutti i dolori. È un dramma nel vero senso della parola, che — qualcuno lo faccia sapere anche ai nostri — non vuol dire “Valle di lacrime”, ma “Azione”, o meglio “Rappresentazione della vita quotidiana”. Gli antichi con drama ci indicavano sia commedie che tragedie. E pure gli americani, che l’antica Grecia non sanno probabilmente né dove, né quando sia stata, la parola Drama la usano per bene, e ci indicano le serie tv, indipendentemente da che ci facciano piangere o ridere.
La lezione di Almodovar è che la tragedia non ha bisogno di retorica per attivarsi e funzionare. Perché la tragedia si alimenta con la vita e Almodovar, dopo averti accompagnato tra i marosi della vita per un’ora in mezza, non esige da te l’obolo del pianto, non viene a chiederti il conto in lacrime. Ti lascia uscire dal cinema con gli occhi asciutti e, da gran campione quale è, dopo averti portato in giro tra i dolori del mondo, ti lascia uscire contento.