IntervistaZoja: “Abbiamo migliaia di amici su Facebook, ma non conosciamo i nostri vicini”

Parla lo psicanalista autore de “La morte del prossimo”, ospite del festival “Generare Futuro” di Lodi: “La globalizzazione ha favorito l’amore per il distante. E chi ne paga il prezzo è l’amore per il prossimo”

Postiamo faccine tristi sotto una foto pubblicata su Facebook, ma camminiamo indifferenti davanti ai senzatetto seduti agli angoli delle strade. Abbiamo conoscenti dall’altra parte del mondo con cui chattiamo ossessivamente, ma non sappiamo neanche come si chiama il nostro vicino di casa. È La morte del prossimo, come l’ha chiamata lo psicanalista Luigi Zoja, ospite del festival “Generare Futuro” di Lodi. Per millenni, scrive Zoja, un doppio comandamento ha retto la morale ebraico-cristiana: ama Dio e ama il prossimo tuo come te stesso. Poi Nietzsche ha annunciato che Dio è morto. E poco dopo, nelle nostre società di massa, è avvenuta anche la morte del prossimo.

Zoja, perché il prossimo è morto?
Sia nell’antico che nel nuovo testamento il prossimo è qualcuno che ti sta vicino. Una persona che vedi, senti, che puoi toccare. Ma la società di massa e la tecnologia hanno portato a una dominazione della lontananza. La globalizzazione ha favorito l’amore per il distante. E chi ne paga il prezzo è l’amore per il prossimo. Questo si unisce all’indifferenza per il vicino prodotta dalla società di massa.

Cosa è successo?
Ogni giorno incontriamo tante persone che, seppur vicine a noi fisicamente, ignoriamo. E invece abbiamo legami affettivi con persone lontane. Pensiamo a quando entriamo in ascensore, in metropolitana o in treno. Stiamo vicini, a volte anche sfioriamo, persone che non conosciamo, a cui non rivolgiamo la parola. L’uomo metropolitano si sente circondato da migliaia di estranei. E questo non è nella sua natura.

Perché?
L’uomo primitivo viveva in piccoli gruppi che ogni tanto incontravano altri uomini. Le espressioni facciali possibili erano due: si faceva un grugno davanti a qualcuno che non si conosceva, e un sorriso se invece si incontrava qualcuno di conosciuto. E la vicinanza era qualcosa che si conquistava a piccoli passi. Oggi nelle nostre città in un solo giorno incontriamo migliaia di volti sconosciuti. Il modello naturale non c’è più. Da qui derivano le nostre espressioni di diffidenza. Lo stesso imbarazzo da ascensore è naturale: non siamo fatti per stare in una gabbia con chi non conosciamo.

Ogni giorno incontriamo tante persone che, seppur vicine a noi fisicamente, ignoriamo. E invece abbiamo legami affettivi con persone lontane. La globalizzazione ha favorito l’amore per il distante. E chi ne paga il prezzo è l’amore per il prossimo

È come subire una vicinanza, che non è più legata alla volontà di conoscersi.
Siamo diventati estranei rispetto agli uomini che incontriamo ogni giorno. Sono vicini ma restano degli sconosciuti. Nella dimensione delle grandi masse urbane l’indifferenza generalizzata è diventata abituale. Per cui accade che si vede qualcuno che sta male e si dice: “Io che c’entro?”. L’unico fattore terapeutico resta la famiglia. Un single che vive da solo in una città con milioni di abitanti è esposto invece all’alienazione. E le tecnologie hanno amplificato tutto questo.

In che modo?
Prendiamo i social network. Si possono avere migliaia di friends. Ma c’è chi ha teorizzato che l’uomo è fatto per memorizzare al massimo 150 volti. Non siamo fatti per conoscere tutte queste persone. Tant’è che sui social abbiamo le foto che ci ricordano chi sono gli individui con cui interagiamo. La tecnologia ha creato l’illusione della conoscenza e della vicinanza, tramite una falsa ricostruzione della prossimità. È il paradosso di Internet.

Cos’è il paradosso di Internet?
Fino a un certo punto Internet e la tecnologia portano più conoscenza, ma c‘è un punto oltre il quale si smette di interagire con le persone vicine, il circolo sociale si riduce e cresce la solitudine. Si crea l’illusione di onnipotenza di avere amici in tutto il mondo, ma sappiamo che non è così. È un’affettività alterata, non accompagnata dalla vicinanza, di cui tra l’altro ci si sta cominciando a occupare.

Prendiamo i social network. Si possono avere migliaia di friends. Ma c’è chi ha teorizzato che l’uomo è fatto per memorizzare al massimo 150 volti. Non siamo fatti per conoscere tutte queste persone. Tant’è che sui social abbiamo le foto che ci ricordano chi sono

Come?
Negli Stati Uniti, ad esempio, l’aviazione militare sta studiando le conseguenze psicologiche dei bombardamenti effettuati sempre più con i droni e sempre meno con gli aerei. Prima il pilota sorvolava l’area che doveva bombardare, c’era una certa vicinanza fisica. Ora ci si sta chiedendo cosa succede all’affettività di questi uomini che sono in Nevada, accompagnano i figli a scuola, poi vanno in ufficio, schiacciano un bottone e bombardano una città dall’altra parte del mondo uccidendo bambini della stessa età dei figli che hanno appena lasciato a scuola. Poi la sera tornano a casa, cenano ecc.

Davanti al rischio di alienazione affettiva, stiamo assistendo però anche a tentativi di recuperare lo stato di affettività primaria.
Certo, negli ultimi tempi stanno emergendo iniziative per tornare alla prossimità dei rapporti anche attraverso la tecnologia. Ad esempio utilizzando internet come mezzo di ricostruzione della solidarietà e dei rapporti di vicinato, come strumento per incontrarsi dal vivo, per organizzare concerti e rinsaldare legami. La tecnologia, attenzione, non serve solo a distruggere.

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