Ghostbuster 2016 esce giovedì 28 luglio nei cinema italiani, ma nel mondo ha già stracciato un record: il suo trailer è già il primo in assoluto nella classifica YouTube dei video con più dislike della piattaforma, 972.932 al momento della stesura di questo articolo. Un numero impressionante di giudizi negativi che si spiega in un solo modo: lesa maestà. Ovvero il primo problema di questa pellicola estiva.
In sintesi, il primo Ghostbuster — quello del 1984 — è un film talmente di culto che se ti ci avvicini e parli di farne un reboot a distanza di 32 anni ti troverai quasi certamente a che fare con un’intera fandom di migliaia di ex ragazzini nerd brufolosi che ti inseguono con le mazze ferrate, manco avessi bestemmiato in San Pietro all’apertura della porta santa, soprattutto se ti viene in mente di sostituire i quattro indimenticabili protagonisti dell’originale con quattro donne.
Esattamente questo è quello che ha fatto il regista, Paul Feig: ha preso il Ghostbusters di Ivan Reitman, l’ha omaggiato citandolo in ogni modo possibile, si è reinventato un plot perfettamente parallelo al primo e ha sostituito la squadra originale con una replica in salsa femminile. E la reazione è stata la rivolta.
Intendiamoci, il film è piacevole. Le quattro nuove acchiappafantasmi sono simpatiche, brave, reggono benissimo i ruoli e sono ottimamente assortite e integrate tra loro. Riesce ad essere simpatico persino Chris Hemsworth, che da Thor si è ritrovato nei panni di un segretario demente che ribalta in chiave maschile tutti gli stereotipi della classica segretaria bionda e scema. E ogni tanto funziona anche.
Eppure, se da bambino non ti sei consumato gli occhi con il capolavoro di Reitman, quest’ultimo Ghostbusters ti passerà altissimo e probabilmente ti basterà il tempo di alzarti dalla poltrona del cinema e avviarti verso l’uscita che te lo sarai già dimenticato.
Quindi questo Ghostbusters è un film creato per motivi di marketing e per accontentare la fandom? La domanda a questo punto è lecita, ma la risposto sarà un “Ehm, no”. O, detto meglio, “Se lo era nelle intenzioni non funziona benissimo nell’esito”. Perché? Perché il Ghostbusters di Feig, nonostante le infinite citazioni sia all’originale che a tutto l’immaginario fantascientifico horror anni Ottanta e nonostante la presenza in prima persona di quasi tutto il cast originale, che di tanto in tanto appare per cameo ammiccanti e autocanzonatori (come quel campione di Bill Murray che fa l’esperto antibufale), non scalda di mezzo grado il cuore dei quei ragazzini che consumavano VHS negli anni Ottanta e Novanta.
Si deve dare atto a Feig di non aver fatto una porcata, di non essere, come si dice, entrato in chiesa a betsemmiare, il problema vero è che, all’uscita del cinema, non c’è alcun motivo per non chiedersi se c’era veramente bisogno di riguardare al computer le diapositive delle vacanze del 1984
E non lo scalda perché, come quasi tutto ciò in cui la retromania è l’elemento preponderante, praticamente unico, anche questo Ghostbusters 2016 alla fine è un prodotto freddo come un esercizio di stile, narrativamente gelido come un cadavere, completamente anaffettivo, verrebbe da dire.
Ripetiamo, è un film piacevole, non annoia e fa anche ridere ogni tanto, ma non riesce mai a afferrarti e trascinarti dentro. Perché funziona come quell’usanza dal sapore premoderno di ritrovarsi a vedere le diapositive delle vacanze: non c’è mai alcuna fotografia, per quanto bellissima, che ti farà sentire il silenzio del deserto o il rumore delle onde che si rompono sugli scogli.
E, per quanto si debba dare atto a Feig di non aver fatto una porcata, di non essere, come si dice, entrato in chiesa a betsemmiare, il problema vero è che, all’uscita del cinema, non c’è alcun motivo per non chiedersi se c’era veramente bisogno di riguardare al computer le diapositive delle vacanze del 1984.
Insomma, questo Ghostbusters è soltanto l’ultimo di una serie di reboot, remake, prequel e sequel che, negli ultimi anni, hanno invaso cinema e televisioni sotto forma di film e serie tv. Certo, in teoria non ci sarebbe moltissimo da preoccuparsi, visto che è sempre stato un punto fermo dell’arte l’essere ricorsiva, imitativa e reiterativa. Anche la Pietà Rondanini di Michelangelo e le variazioni Goldberg suonate da Keith Jarrett sono dei remake, in fondo.
Eppure il tema biblico tanto amato da Michelangelo e l’opera più reinventata della storia della musica c’entrano poco con il fenomeno nostalgico-artistico che negli ultimi anni, a colpi di remake, di reboot, di sequel e di prequel, si è affermato come la vera e propria cifra stilistica dell’ultimo decennio. Una cifra che chiamiamo, sulla scorta di un ottimo e ponderoso saggio pubblicato nel 2011 da Simon Reynolds, Retromania, un concetto che, da quando Reynolds ha scritto il suo saggio, ogni tanto sembra proprio che ci sia scappato di mano. Come in questo caso.