«Nel 2012, dopo il terremoto in Emilia, presentai un piano da 40 miliardi di euro per la sicurezza del territorio, rischio sismico compreso. Non ebbe seguito, ma dobbiamo capire che, più che un costo, questi interventi vanno considerati un investimento, la grande opera di cui abbiamo bisogno». A parlare è Corrado Clini, ministro dell‘Ambiente durante il governo Monti e direttore generale dello stesso dicastero tra il 1991 e il 2011. Oggi è visiting professor alla Tsinghua University di Pechino. La sua è un’analisi che parte dall’incapacità della politica di farsi carico delle responsabilità di interventi che richiedono costanza e risultati che si vedono solo nel medio e lungo termine.
In un Paese occidentale una scossa di magnutide 6 può provocare i crolli che abbiamo visto e i morti che stiamo contando?
Noi abbiamo avuto di recente l’esperienza del terremoto del 2012, in Emilia, che è stato gestito in maniera efficace da Graziano Delrio, che allora era sindaco di Reggio Emilia (e oggi ministro delle Infrastrutture, ndr). Quello che emerse allora è che noi abbiamo una mappa della sismicità del territorio, basata sui dati storici. Non è molto precisa ma dà indicazioni chiare sulle zone esposte al rischio di terremoti. Su queste zone bisogna fare prevenzione dei danni. La previsione dei terremoti come noto è estremamente aleatoria, ma la prevenzione dei danni è possibile.
Come?
Nel dicembre 2012 proposi una delibera al Cipe sulla sicurezza del territorio. Si basava su due presupposti: il primo è che ridurre al minimo il rischio sismico è possibile. Il secondo è che mettere in sicurezza gli edifici va considerato come una grande opera. Ha dei costi, ma a distanza da 40 anni dal terremoto del Friuli, possiamo cominciare a fare i conti e capire che gestire le varie emergenze finisce per costarci molto di più. Va anche aggiunto che mettere in sicurezza un territorio più che un costo va considerato un investimento che rimette in moto un pezzo di economia.
Che costi avevate stimato?
La stima era di un investimento di 40 miliardi di euro, spalmati su 15 anni. Per metà sarebbe stato un intervento pubblico, per metà di investimenti di privati che poi avrebbero beneficiato di un credito di imposta totale. Inoltre avevamo introdotto l’ipotesi di una assicurazione obbligatoria contro il rischio sismico, per creare un fondo che facesse da “backup” per gli interventi. Avevamo anche presentato il piano alla Commissione europea, che lo considerò compatibile con la strategia per la crescita e l’occupazione. Soltanto che aspettava il piano per dare il via libera per l’uso delle risorse, che, almeno per la parte di competenza pubblica, dovevano rimanere fuori dal patto di Stabilità.
«A distanza da 40 anni dal terremoto del Friuli, possiamo cominciare a fare i conti e capire che gestire le varie emergenze finisce per costarci molto di più. Va anche aggiunto che mettere in sicurezza un territorio più che un costo va considerato un investimento che rimette in moto un pezzo di economia»
Come andò a finire?
Purtroppo questo piano non ha avuto seguito. Con il risultato che ci ritroviamo a spendere per le emergenze.
Perché non ebbe seguito?
È quello che accade spesso in Italia. Le scelte di carattere programmatico che richiedono investimenti nel lungo termine e costanti, confliggono con la politica, che ha obiettivi di brevissimo termine.
È possibile intervenire anche in paesi del centro Italia, con edifici molto antichi?
Certo che è possibile. Lo dimostrano i casi di città come Perugia. E Norcia, dove le case furono messe in sicurezza dopo il terremoto del 1979, e dove i danni sono stati limitati in confronto agli altri paesi colpiti. Quello che va cambiato è che non bisogna più aspettare il dramma, ma bisogna basarci sulle mappe e sui dati storici.
Parliamo dei costi: la spesa pubblica non è nelle disponibilità piena di governo ed enti locali.
Nel 2012 abbiamo avuto esperienze difficili. Ci siamo dovuti confrontare con un atteggiamento da ragionieri ottocenteschi, che impediva le spese a causa del patto di stabilità interno.
Poi ci sono i limiti europei.
Il patto di stabilità interno discende infatti dal fiscal compact. Se abbiamo un problema di debito pubblico e un problema di infrastrutture che mettono in pericolo la sicurezza, ci ritroviamo in circolo vizioso con effetti paradossali: per spendere di meno si finisce per spendere di più. Questo è un momento terribile per fare considerazioni a freddo, ma purtroppo di questi temi si parla solo quando ci sono le emergenze.
I fondi attuali? «Servono per coprire le emergenze. È un problema che c’è da sempre, non è certo solo di questo governo. Tutte le volte ci chiediamo se non sarebbe stato meglio agire prima, per mettere in sicurezza un ponte o una casa dello studente»
Qual è il suo giudizio sui fondi attuali per la prevenzione?
Che servono per coprire le emergenze. È un problema che c’è da sempre, non è certo solo di questo governo. Tutte le volte ci chiediamo se non sarebbe stato meglio agire prima, per mettere in sicurezza un ponte o una casa dello studente.
Anche in questo caso la classe politica non sa prendersi le proprie responsabilità?
Il tema è più semplice che per altre questioni. L’operazione che si dovrebbe fare è importante richiede di intervenire anche a costo di giocarsi un po’ di consenso. Perché alcuni edifici sono recuperabili, altri no, e andrebbero abbattuti. È una questione simile a quella dell’abusivismo edilizio.
C’è il rischio che i paesi colpiti finiscano per essere abbandonati?
Il rischio c’è, è già successo in passato in paesi dell’Appennino colpiti da terremoti.
Ci sono da anni le detrazioni al 50%. È il caso di lanciare un appello ai privati perché facciano di più?
Sì, i privati possono fare la loro parte. Ma presumere che si possa realizzare un piano senza uno stimolo pubblico è illusorio. Bisogna assumere misure sistemiche, come si è fatto con le certificazioni energetiche negli anni passati.