Il fatto più atteso della settimana scorsa, almeno audiovisivamente parlando, è stato senz’altro il ritorno di Black Mirror. La serie televisiva antologica creata nel 2012 da Charlie Brooker per Endemol, inizialmente trasmessa da Channel 4, dopo due anni di silenzio è tornata infatti, questa volta prodotta e distribuita da Netflix, con una nuova stagione di sei episodi inediti che, diciamolo subito, hanno saputo confermare la potenza disturbante e la qualità di scrittura e produzione di un prodotto ormai diventato un vero e proprio culto per milioni di spettatori seriali.
Non era facile. L’attesa era immensa. Il cambio di produzione e lo spostamento sull’altra sponda dell’Atlantico aveva inquietato un bel po’ di gente. Anche perché, quando cominci la tua prima partita con un episodio in cui la stabilità del Regno Unito viene messo in discussione dal rapimento della principessa e da un ricatto sessual-mediatico a sfondo zoofiliico hai già fatto gol da centrocampo sotto l’incrocio battendo un portiere piazzato sulla linea di porta. E restare a quei livelli, per una serie che nella sua prima vita inglese ha infilato sette perle, una dopo l’altra, non era affatto facile.
Eppure, non soltanto queste nuove sei puntate targate Netflix sono all’altezza delle prime sette, ma sono anche completamente al passo con il nostro immaginario, che nel frattempo ha fatto qualche passo in avanti. E siccome per una serie come Black Mirror, restare al passo significa anticipare la nostra corsa verso l’abisso di un paio di centinaia di metri, la cosa non era affatto facile. Ma l’obiettivo è stato raggiunto.
La prima e la seconda stagione avevano quasi sempre sparato ad alzo zero nel mucchio, tra i già citati disgustosi amplessi zoofilici, lotte sociali senza esclusione di colpi per guadagnare a tutti i costi i propri quindici secondi — eh sì, Warhol ha fatto il suo tempo — di celebrità, tra rocamboleschi partiti politici comandati da comici e pupazzi (sic), gogne mediatiche voyeuristiche di una violenza tantalica e terrificante e altre amenità del genere.
Se l’obiettivo delle prime due stagioni pareva mandare a segno una critica distopica contro la società, e quindi si parlava di Noi al plurale, in questa terza stagione Brooker ha cambiato leggermente obiettivo, e parla di Noi al singolare. Di me e di te. Ha cambiato arma, ha smesso di sventagliare raffiche di Gatling, ha preso un fucile di precisione con mirino telescopico e ce l’ha puntato in mezzo agli occhi. A ognuno di noi.
Questa è la forza di una stagione che preferisce indugiare sul delirio individuale di una società di matti, piuttosto che sulla società di matti. Certo, il procedimento non è molto diverso dal solito: si prende un ingrediente tecnologico che ci ha inondato la vita — un social network totalizzante, una tecnica video ludica immersiva, le tracce digitali che lasciamo della nostra vita su internet e via dicendo — e se ne alza il tasso di invadenza fino a farci vedere che effetto fa. E non è certo un atto di spoiler dire che l’effetto è sempre la nostra mostrificazione.
Black Mirror, come il suo titolo non nasconde affatto, è proprio questo, lo specchio che riflette la nostra mostrificazione all’epoca della nostra riproducibilità digitale. Ma c’è anche un’altra cosa che il titolo non nasconde per niente. Il suo essere in fondo uno specchio nero, e uno specchio nero non riflette, come un buco nero ci attira senza possibilità di scampo, ci fa coccolare l’idea di avere trovato il santo Graal che ci redime e ci salva dall’abisso, ma come il tempio della luna crescente di Alessandretta, quel santo Graal porta lo stimma di una maledizione: non ce lo lascia portare fuori.
Basta aver scorso la propria timeline di Facebook questo weekend per capire quanto quella maledizione sia potente, quanto quella pozione sia magata. Se avete tra i 25 e i 40 anni, se siete spettatori di Black Mirror e se la vostra bolla sociale è come voi, quella timeline sarà piena zeppa delle opinioni di tutti.
Critiche, esaltazioni, messaggi ironici, richiesta di aiuto, annunci di dipendenza acuta. Non importa come tutti noi abbiamo commentato la nostra esperienza dentro lo Specchio Nero. Il fattore decisivo è che, dopo aver scorto il nostro viso deformato dentro lo specchio, dopo aver provato paura e straniamento per aver provato la sensazione di chi si scopre alcolizzato dalla mano che trema, dopo aver provato la vertigine di dare dell’imbecille alla controfigura di noi stessi, quello che abbiamo fatto tutti non è stato reagire. Non siamo corsi in strada ad abbracciare nessuno dei nostri amici più cari. Non abbiamo chiesto a nessuno sconosciuto come come stava. Non abbiamo chiamato nostra madre.
No, siamo usciti da Netflix e siamo tornati sulla scheda dove abbiamo sempre aperto, ormai giorno e notte, Facebook. Abbiamo scritto il nostro messaggio e l’abbiamo infilato nella bottiglietta di plastica che chiamiamo status e che gettiamo compulsivamente nell’oceano infinito e desolato che chiamiamo Facebook. E abbiamo aspettato, con la nostra manina sporta nel vuoto come mendicanti digitali, la nostra mancia quotidiana di like e di commenti. L’endorfina dei nostri tempi.
Certo, Black Mirror non è fatto per cambiare il mondo, è puro entertainment, come ha scritto giustamente Gianmaria Tammaro sul Foglio il giorno dell’uscita. È vero. È legittimo. È persino naturale. George Orwell probabilmente non ha scritto 1984 per farci fare la rivoluzione; e nemmeno Ray Bradbury si è imbarcato in quel capolavoro di Fahrenheit 451 per far salvare la cultura dal buio dell’ignoranza.
L’arte non serve per fare le rivoluzioni, serve per ampliare le nostre percezioni, per affinare i nostri sensi, per affilare quella cosa che chiamiamo coscienza. E la coscienza, quella sì, ci è stata data dalla natura per riuscire nel miracolo inedito dell’autoestinzione. E il fatto che guardare nello specchio di Black Mirror ci disturba e ci perturba non è si spiega soltanto dal punto di vista estetico.
Quel dannato specchio nero ci sta facendo vedere, forse anche superando di chilometri il suo obiettivo (come tutta la buona arte, in realtà), l’esatta dimensione del nostro abbrutimento. E se la nostra reazione, subito dopo la vertigine, la paura e il fastidio, è lanciarci di nuovo senza paracadute nel flusso digitale che ci sta mostrificando, forse Black Mirror non è più una serie distopica. Forse Black Mirror è puro realismo.