“Si può vincere una guerra in due, o forse anche da soli. Si può estrarre il cuore anche al più nero assassino. Ma è più difficile cambiare un’idea”. Così cantava ormai una vita fa Piero Pelù in Apapaia, una delle gemme contenuto in quello scrigno di musica indipendente che era 17 Re. Parole sante. Parole sante da cui partire. È più difficile cambiare un’idea. Bene. Confermo. Per questo non c’è niente di meglio che cambiare un’idea, essere sorpresi, spiazzati, rimettersi in gioco.
Io non so bene se sono io a aver cambiato un’idea. O se è Dario Brunori, in arte Brunori SaS. Nei fatti oltre un anno fa si dibatteva sui social, anche aspramente, su canzoni sciatte, incomplete, su arrangiamenti un po’ buttati lì, e soprattutto, lì senza asperità, ma con curiosità, sull’uscire fuori, sullo smettere di guardare con insistenza e maniacalità il proprio ombelico, e oggi abbiamo per le mani A casa tutto bene, quarto lavoro di Brunori SaS, un album, lo dico senza indugi e mettendoci serenamente la faccia, destinato a cambiare le cose, come le opere d’arte importanti per loro natura dovrebbero sempre fare.
A casa tutto bene non è solo e tanto l’album della maturità di Dario Brunori, cantautore calabrese spesso indicato come testa di serie della scena indie italiana, quella dei nuovi cantautori che vengono dal basso ma che ambierebbero al mainstream, con giusto seguito dei vari Dente, Brondi, ma anche dei più giovani Thegiornalisti, I Cani, Calcutta e compagnia cantante. No, A casa tutto bene è l’album in cui Brunori decide, sia ringraziato Iddio, di guardare al mondo con una penna finalmente compiuta, precisa, a tratti talmente alta da permettere un balzo all’indietro, a un passato in cui il cantautorato aveva un peso anche sulla nostra società, in cui i cantautori erano davvero una voce da tenere in conto, capace di fotografare un oggi, quello degli anni Settanta e dei primi anni Ottanta, difficile da fermare, perché mosso e sempre fuori fuoco.
A casa tutto bene, quarto lavoro di Brunori SaS, è un album destinato a cambiare le cose, come le opere d’arte importanti per loro natura dovrebbero sempre fare
Non che l’oggi odierno sia tanto più facile da acchiappare, perché stando a quel che esce da anni dentro i dischi dei nuovi cantautori, verrebbe da dire che viviamo in un mondo sconnesso, di isolamento emotivo e sociale, di alienazione emotiva. Brunori, guardando sicuramente al Folk Studio, ma con una lingua che, in evoluzione, va via via affrancandosi dalle origini, sembra il solo capace, oggi, di trovare il punto di incontro tra quello che in passato era lo scenario poetico messo in campo da Francesco De Gregori e Antonello Venditti, tra una scrittura melodica che sicuramente guarda con affetto al Principe, ma con una tendenza lirica decisamente più vicina al Venditti dei suoi anni migliori.
Il tutto, però, con un piglio di originalità che, trovata la quadratura del cerchio di una forma compositiva che, finalmente, appare sempre compiuta, e con arrangiamenti che a questo punto, nel loro essere così classicamente cantautorali, con lievi virate latineggianti, qua e là, ma sempre perfettamente pertinenti (opera di quel Taketo Gohara già al suo fianco in passato, ma stavolta più a fuoco).
Ad ascoltare i brani di questo lavoro, a partire dal primo singolo La verità, la più degregoriana della canzoni, nonché una delle migliori di questa covata tutta su livelli alti, Brunori appare quel che è, un cantautore senza troppe illusioni ma anche senza disperazioni. Un cantautore che, dopo essersi a lungo occupato di quel che avviene a casa, tanto per andare al cuore di questo album, decide di abbandonare quelle certezze per affrontare il mondo. E il mondo, questo forse lo avevamo già notato di nostro, è un posto un po’ più spaventoso e meno accogliente di casa nostra.
Il discorso, e qui va un nuovo plauso a Brunori, potrebbe essere esteso anche al mondo musicale nel quale il cantautore calabrese si è mosso fin qui, l’indie appunto, un microcosmo fatto di soddisfazioni, dal quale A casa tutto bene sembra voler in qualche modo prendere le distanze, ambendo a un pubblico meno accondiscendente, più generalista. Questo lavoro è quindi un album che ci racconta del momento in cui si esce dalla calda sicurezza di casa (i primi versi dell’album sono i magistrali “Te ne sei accorto, sì?/ Che parti per scalare le montagne/ E poi ti fermi al primo ristorante/ E non ci pensi più”, tanto per non dare indicazioni riguardo alla disillusione che poi troveremo negli altri versi), figlio probabilmente dell’esperienza teatrale che il nostro ha tenuto negli ultimi anni, in cui era Gaber e per sicurezza si intenda anche un modo di fare musica, il suo fino a oggi, ormai ampiamente rodato e apprezzato da un pubblico di riferimento fedele e in crescita.
Oggi Brunori ci racconta le paure che ci circondano, e lo fa là dove le paure meglio attecchiscono, fuori dalla nostra zona di conforto
Un lavoro, già lo si capisce dalla copertina, in cui Brunori è apparentemente meno presente, niente faccia barbuta del nostro, ma solo grafica. Qualcuno dirà: ma in fondo Brunori ha sempre parlato anche degli altri, del mondo fuori casa. Vero parzialmente, e sicuramente è il punto di vista di chi sta fuori casa quello che dona alla sua poetica un passo differente.
Oggi Brunori ci racconta le paure che ci circondano, e lo fa là dove le paure meglio attecchiscono, fuori dalla nostra zona di conforto, esattamente l’opposto di quanto dice in Don Abbondio, una delle tracce migliori di questo lavoro insieme a La verità, L’uomo nero, la splendida Il vestito da torero e la struggente Canzone contro la paura, vero manifesto del nuovo corso brunoriano. Prendere coscienza che il dolore c’è, e che tocca farci i conti, questo il punto di partenza. Chiaro, la fotografia che esce da questo lavoro è agghiacciante, ma Brunori è il fotografo, mica lo sceneggiatore di questi anni.
Bentrovato, compà, non fossimo a gennaio parlerei di disco dell’anno, ma visto mai… Facciamo nostri i tuoi versi, cantati mica a caso con un coro di bambini: “La realtà è una merda, ma non finisce qua/ Passami il mantello nero, il costume da torero/ Oggi salvo il mondo intero/ Con un pugno di poesie/ Non sarò mai abbastanza cinico/ Da smettere di credere/ Che il mondo possa essere/ Migliore di com’è/ Ma non sarò neanche tanto stupido da credere/ Che il mondo possa crescere/ Se non parto da me”.