Che Facebook abbia un problema con il sesso è cosa risaputa. Basta dare un’occhiata ai casi di censura, di post eliminati, di account sospesi o di pagine rimosse a causa di segnalazioni di contenuti che contengono esplicite allusioni al sesso. L’ultimo caso che ha fatto il giro della rete è datato inizio gennaio, quando un annuncio di una scrittrice italiana sul proprio profilo di Facebook era stato censurato dal social network a causa dell’immagine al quale era abbinato: uno sconcissimo scatto che ritraeva le chiappe della statua di Nettuno, nell’omonima piazza bolognese.
Come spesso capita, dopo la dura reazione della malcapitata utente, ma soprattutto alla luce del risalto mediatico che la notizia ha avuto, Facebook ha chiesto scusa e ha ritirato la censura, rimettendo le chiappe di Nettuno al loro posto e riammettendole nel sano mondo dell’arte. Una cosa simile era successa anche a una giovane italiana, Manuela Migliaccio, che aveva condiviso su Facebook una foto che la ritraeva mentre sfilava sulla sua sedia a rotelle durante una sfilata di moda a Milano. La sua colpa irreparabile? Si vedeva l’ombra di un capezzolo.
O ancora, per citare un altro esempio celebre, quella volta che Facebook cancellò un post di Tom Egeland, scrittore norvegese la cui colpa era di aver pubblicato una delle foto più famose della storia del Novecento, quella celeberrima del fotografo Nick Ut che colse la fuga di un gruppo di civili tra cui una bambina dal napalm americano. E l’elenco può continuare pressoché all’infinito, dato che sono migliaia i contenuti che Facebook ogni giorno blocca sui profili e sulle pagine di utenti di tutto il mondo.
Ma come è possibile che un social network nato fondamentalmente per permettere a un manipolo di nerd di spulciare e giudicare le foto delle proprie compagne di università abbia compiuto, in meno di quindici anni, una virata tanto decisa da fargli guadagnare sul campo la fama di social estremo moralizzatore, quando non di censore?
Il primo riflesso, come capita anche per il bullismo o per l’odio in rete, è prendersela direttamente con Zuckerberg, i suoi sodali e i loro regolamenti da badessa, sempre pronti a rimuovere profili e pagine colpevoli di pubblicare foto di quadri o statue nude, ma molto meno zelanti di fronte ad altri problemi, come la violenza, il bullismo, la disinformazione o il razzismo. E in effetti la sensazione, anche se non è supportata da alcun dato, è proprio quella di un social molto duro quando si parla delle chiappe di Nettuno o delle tette di qualche sessantottina, ma molto meno quando il problema sono insulti, odio e violenza.
Giusto ieri lo scrittore e sceneggiatore Roberto Recchioni, proprio sul suo profilo Facebook, a proposito dell’ennesimo cambio di policy, segnalava un fatto curioso: «Adesso c’è la voce “non credo che questo contenuto debba essere su Facebook perché contiene allusioni esplicite al sesso”. […] Da adesso in poi, quello che sarà censurabile non riguarderà più una zinna o un culo ma, potenzialmente, qualsiasi cosa che tocchi la sfera sessuale (chessò, un racconto erotico o una canzone di Casto)».
Il problema individuato da Recchioni esiste, ma per capirlo fino in fondo bisogna fare un passo più in là. Guardiamo Facebook per quello che è, un cosiddetto Walled Garden, ovvero un giardino chiuso il cui scopo è mantenere i proprio utenti al proprio interno. Questo è l’obiettivo, lo scopo, il fine di una società che monetizza tanto più i suoi utenti lo usano. Non importa come, l’importante è che ci navighiamo dentro, che mettiamo i nostri docili like o i nostri naif grrr, che commentiamo, che ci indigniamo, che condividiamo.
Facebook siamo noi. Non è una frase da maglietta o un content marketing commissionato da Zuckerberg. È la verità. E lo è semplicemente perché la convenienza specifica di un luogo che pretende di farti passare più tempo possibile al proprio interno è quello di adattarsi al proprio pubblico. Facebook somiglia sempre di più al proprio pubblico. Di più, deve farlo, pena il rischio di essere abbandonato. E il rischio, Zuckerberg lo sa, c’è.
La verità, dunque, non è che il social network fondato da una manciata di ragazzini brufolosi che volevano scopare è diventato sessuofobo. La verità è che il mondo in cui viviamo lo è, che noi lo siamo. E che abbiamo molta più paura di un culo o di un paio di tette che delle parole violente, gli insulti razzisti delle migliaia di persone che ogni giorno sfogano la propria povera frustrazione di nullità sulle proprie bacheche. Il problema di Zuckerberg con il sesso,quindi, è il nostro problema con il sesso. E la svolta moralizzatrice di Facebook è solo il riflesso di un rigurgito bacchettone, moralista, baciapile e reazionario che si sta verificando nella nostra società. È ora di farci i conti: forse l’evoluzione può avere segno negativo. Forse stiamo tornando indietro.