Esce Comunisti col Rolex, l’album più atteso dalla comunità dei bambini italiani da tempi della sigla dei Puffi cantata da Cristina D’Avena e mi accingo a parlarne. Nel farlo mi dico, la cosa più scontata che posso fare è ironizzare sul pubblico di riferimento di questa operazione, perché se da una parte è evidente che messi insieme i fan di Fedez e J Ax non raggiungono l’età sufficiente per guidare uno scooter, dall’altra è ovvio che non sottolineare come questo lavoro sarà con ogni probabilità uno degli album di maggior successo di questo 2017, a riprova che è vero che col 2016 non sono morti solo un sacco di importanti esponenti del mondo musicale, ma è morta proprio la musica, sarebbe davvero poco onesto e prova di malafede.
Quindi tocca ricominciare da capo.
Dicendo che esce Comunisti col Rolex, l’album destinato a riscrivere il concetto di imbarazzo, non solo e non tanto per la squisita bruttezza delle canzoni contenute nella tracklist, una galleria degli orrori che avrebbe mandato letteralmente fuori di testa uno come James Ballard, convincendolo a lasciar perdere con incidenti stradali, star dello spettacolo e condomini alienanti per dedicarsi anima e corpo e penna al mondo che fu del rap, ormai convertitosi al pop usa e getta, tutto costruito per portare product placement nei video più che per inseguire non dico l’arte, ma almeno la piacevolezza leggera e spensierata nel l’ascolto.
Ma anche questo, in fondo, non è un buon incipit, perché sembra pregno di pregiudizi, di quelli che poi spingono gli haters a dirti che sei un intellettualoide, uno che si definisce critico musicale, e gli artisti, anche se in questo caso di artisti non ce ne sono, a dirti che dovresti farti un bagno di umiltà, fatto che ti induce a riprendere la lettura in lingua originale di Giles ragazzo-capra di John Barth, maledicendo il giorno in cui hai smesso di occuparti di massimalismo americano per andare a scrivere di canzonette, ché va bene essere leggeri, ma essere coglioni no.
Coministi col Rolex, una sorta di immensa operazione di marketing tutta volta a spiegarci che no, non è che loro hanno venduto il culo al sistema, siamo noi che non ci siamo riusciti
E proprio gli haters, in effetti, sono il motore di questo progetto, una sorta di trollata troppo lunga e prodotta per essere solo una trollata, come se invece di farti uno scherzo telefonico, un amico, magari un amico a cui hai soffiato la ragazza, rigato la macchina o fatto fare una figura di merda davanti a tutta la compagnia, decidesse di organizzarti una situazione come The Game di David Fincher, esempio questo, che al pari di Giles ragazzo-capra di Barth, capiranno in quattro, lo so, probabilmente gli stessi quattro di Giles ragazzo-capra, ma almeno ho chiarito una volta per tutte che io non sono quello di Comunisti col Rolex, non fatevi fregare dal fatto che sto qui a parlarne.
Perché Fedez e j Ax, cioè un poppettaro molto basso di statura, e no, non parlo solo di statura artistica, e J Ax, uno che dopo essere stato deriso per anni da quanti facevano rap negli anni novanta ora viene deriso da quelli che facevano rap negli anni novanta, e qui si chiude il suo reale rapporto col rap, Fedez e J Ax, dicevo, hanno deciso di uscire con un album comune, tanto il loro pubblico è lo stesso, i bambini di cui sopra, e lo hanno fatto mettendo le mani avanti nei confronti degli adulti, sparando un titolo che i bambini, che non sanno cosa sai il comunismo, non posso capire, e mettendo in scena una sorta di immensa operazione di marketing tutta volta a spiegarci che no, non è che loro hanno venduto il culo al sistema, siamo noi che non ci siamo riusciti, che no, non è che loro fanno musica di merda, siamo noi che non siamo in grado di farne neanche di merdissima, che no, non è che aver messo in fila una galleria di ospiti che farebbe venire gli incubi al tizio pelato e col cero e di Strade perdute di Lynch dimostra come, in effetti, il concetto e brutto è relativo e si può sempre fare peggio, loro sono solo artisti pop e noi no.
Ora, preso atto che per scrivere questo articolo ho dovuto rinunciare alla sana abitudine di leggere al cesso, perché usando il metodo Stanislavskij, o più semplicemente, da scrittore, volendo emulare William T. Vollmann che per parlare di puttane va a puttane, ho voluto farlo seduto sulla tazza, voglio dire una volta per tutte che nei confronti di questo album avevo tutti i pregiudizi del mondo.
E voglio anche dire che tutti questi pregiudizi erano più che ben riposti. Perché ci ho provato, lo giuro, a mettermi qui, con calma, e a ragionare su una recensione seria, pezzo per pezzo, tecnica, ma poi mi sono detto che per parlare di merda non è necessario essere tecnici, dici “è una merda” e hai detto tutto quel che c’era da dire.
Comunisti col Rolex non è un album degno di nota, se non per il fatto che starà in classifica per mesi, che i due ne trarranno chissà quanti singoli e che ogni due per tre tireranno fuori una qualche polemica per farne parlare. Io ho abboccato all’amo e son qui, seduto sulla tazza, a parlarne, per la cronaca non tanto sulla tazza come nel noto selfie di Arisa girato sui social, quanto come la nota foto di Frank Zappa, così per puntualizzare, ma senza citare neanche una canzone, così volendo diranno che non l’ho neanche ascoltato, che parlo così perché non sono ricco, perché non sono famoso o semplicemente perché sono alto un metro e settantacinque senza tacchi.
La merda è merda. Altro non mi sento di dire a riguardo. Questa non è neanche la merda d’artista di Manzoni, né una operazione come quella della zuppa Campbell di Warhol. Questa è merda e basta. Gillo Dorfles, mi auguro, non sarà mai informato della sua esistenza, ha 106 anni, è sopravvissuto a due guerre mondiali, Achille Bonito Oliva e la Transavanguardia e le scarpe senza calzini di Cattelan (ma forse era quell’altro Cattelan), non diamogli noi il colpo di grazia.