Diego Fusaro è un personaggio controverso. Celebre in alcuni ambienti — in alcune bolle, verrebbe da dire — e completamente sconosciuto in altri, Fusaro è uno dei più giovani intellettuali italiani, di lavoro fa il professore di filosofia al San Raffaele di Milano, scrive sul Fatto Quotidiano e La Stampa, fa comparsate televisive abbastanza di frequente e scrive saggi e libri di divulgazione filosofica. Si definisce allievo indipendente di Marx e Hegel e il discorso critico che porta avanti è un gran mischione di argomenti provenienti da fonti appartenenti all’intero arco filosofico politico, da sinistra a destra: Gramsci, Pasolini, Marcuse, Camus e Orwell, ma anche Heidegger, Nietszche, Pound, De Benoist.
L’operazione è di quelle audaci ed è molto insidiosa. E non tanto perché si propone di superare le categorie politiche di sinistra e di destra, ormai messe in discussione quotidianamente, come giusto l’altro giorno hanno fatto sia Le Pen che Macron in Francia, come fa da anni il Movimento 5 Stelle in Italia. È un pensiero insidioso, questo, e lo è perché mette insieme con estrema disinvoltura pezzi contraddittori della filosofia occidentale, arrivando ad assemblare un Frankenstein che ha il corpo di un socialista e la testa di un nazionalista.
Quello che mette in piedi Fusaro è, appunto, un mostro concettuale e contraddittorio: le sue radici sono ben piantate nel socialismo materialista, quello che divide il mondo tra chi ha e chi non ha, e che vede come movimento fondamentale della storia la dialettica servo-padrone, ma la direzione e l’orizzonte verso cui procede non è nient’altro che un nazionalismo reazionario idealista, che non divide il mondo in classi, ma in identità, ovvero non tra chi ha e chi non ha, ma tra chi è e chi non è, una strada lastricata di idee come il ritorno alla sovranità economica, alla geopolitica delle frontiere, alla difesa dell’identità culturale.
Il pot pourri di Fusaro è tanto ampio da aver fatto ripescare a molti suoi interlocutori la definizione di ”rossobruno“, termine che si riferisce a un’area politica che nasce dal sincretismo tra alcuni elementi della destra sociale ed altri della sinistra sociale. Ecco, Fusaro fa un’operazione di quel tipo, riuscendo a far convivere tutto e il contrario di tutto e con questo libro, santificando il pensiero alternativo, fa della ribellione e del dissentire un atto religioso, la cui importanza è nel suo semplice esistere, come la fede, indipendentemente dal movente da cui muove.
È una religione del dissentire quella che emerge da Pensare altrimenti, una religione che sull’apologia della ribellione supera a destra e senza freccia i movimenti no global e l’anarchismo, e che applica al concetto di rivolta e di pensiero alternativo un relativismo elevato a se stesso e, proprio per qursto, va a finire che si avvita su se stesso e capitombola in un pensiero sostanzialmente reazionario: «Condannando preventivamente come blasfemo e immorale ogni atteggiamento non allineato», scrive Fusaro, «anti fascismo e lotta contro l’omofobia diventano, in questo modo, categorie persecutorie con cui silenziare, diffamare e discriminare chiunque non si attenga all’ortodossia, cioè alla sovrastruttura simbolica santificante i reali rapporti di forza, id est, la “struttura” economica del fanatismo del mercato planetario».
Al di là del superamento delle categorie di sinistra e destra, su cui si discute da molto tempo e su cui si continuerà a discutere a lungo, il mistero qui è cercare di capire come fa Fusaro a far convivere con tanta disinvoltura la sua visione del mondo, diviso in due classi contrapposte, con la sua speranza per il futuro, ovvero il ritorno delle identità nazionali. Il mondo del futuro che vorrebbe Fusaro infatti, non è la tipica utopia socialista, quella internazionalista che predica l’alleanza dei subalterni di tutto il mondo.
Al contrario, quello che preconizza il filosofo torinese è un mondo ridiviso in stati nazione in cui l’alleanza non è più quella trasversale, internazionalista e materialista tra i componenti della massa ormai atomizzata e alienata di lavoratori precari, tra chi non ha, ma quella, idealista, costruita sull’idea di identità e di cultura nazionale, quella tutta novecentesca, idealista e identitaria del Popolo, allineato dietro la propria identità culturale, nazionale e nazionalista.
Sono ingredienti molto pericolosi quelli che butta nella padella Fusaro, perché quando si attivano, di solito succede un casino. D’altronde, è proprio da un misto di nazionalismo e socialismo che, nell’ultimo secolo, sono maturati i tre totalitarismi che hanno scritto la storia del Novecento — comunismo, fascismo e nazismo — tre storture ideologiche nel cui DNA c’è un punto in comune: il socialismo capito male e applicato peggio.
C’è un ulteriore aspetto insidioso nel pensiero di Fusaro e deriva da un vizio di forma che sottende tutto il suo discorso e che si chiama semplificazione. Il suo discorso, infatti, pur complicandosi artificialmente grazie a uno stile da tesi di laurea — dall’uso ripetuto e insistente del orribile verbo “adombrare” fino agli incisi in tedesco e in latino — ritorna compulsivamente alla più sintomatica delle semplificazioni, quella che divide il mondo in loro e in noi, una distinzione che Fusaro applica, sempre con la stessa disinvoltura, allo scacchiere geopolitico mondiale, in cui il loro sono la cupola dell’aristocrazia finanziaria e del Nuovo Ordine Mondiale e il noi sono delle non meglio definite masse di lavoratori subalterni, precari e sfruttati, a quello intellettuale italiano, dove il loro è un indistinto panteon composto dal nuovo clero degli intellettuali e dei giornalisti, e il noi è, per l’appunto, il Popolo.
Attenzione, qui nessuno sta scrivendo che nel laboratorio del pensiero politico di Fusaro si stia ricreando per caso il nazionalsocialismo, anche perché non c’è nessun tipo di misticismo, né nessuna apologia della violenza nel discorso di Fusaro. C’è da stare attenti, però. Perché quando si mischiano nella stessa pentola il materialismo socialista e il nazionalismo idealista, anche se le intenzioni sono buone e l’obiettivo è riparare ai torti del mondo, si rischia di prendere una strada che non sappiamo dove porta.