L’università non è più semplicemente il posto della formazione e della cultura ma rischia di diventare a pieno titolo il motore socio-economico della società.
La risposta ai cosiddetti “global challenges” – il cambiamento climatico, le energie rinnovabili, la progressiva urbanizzazione ecc. – dipende sempre più dalle conoscenze scientifiche e dalle innovazioni tecnologiche che le università di tutto il mondo mettono a disposizione per costruire e sostentare il benessere socio-economico. Nell’integrazione globale in cui viviamo nessuna nazione può limitarsi a essere un semplice “utente del sapere”, ciascuno deve impegnarsi a creare nuove conoscenze affinché si riduca il gap di innovazione – e di conseguenza di benessere economico – che differenzia i vari paesi tra loro.
Era il 1862 quando il presidente degli Stati Uniti Abramo Lincoln istituì per la prima volta le land-grant university, che avevano il compito di promuovere lo sviluppo agricolo locale. Tutt’oggi negli Usa è molto diffusa la predisposizione ad abbandonare la torre di controllo del sapere per scendere in campo a “sporcarsi le mani”, contribuendo così allo sviluppo economico. Questa tendenza ha preso sempre più piede con il passare dei decenni e la vera sfida che gli atenei si trovano oggi a fronteggiare è quella di allargare l’approccio “lincolniano” ai problemi globali.
Le università possiedono tra le proprie mura le competenze scientifiche in grado di individuare una soluzione efficace per i problemi legati allo sviluppo sostenibile; questo colloca le accademie di tutto il mondo al vertice delle istituzioni sociali come players attivi per il raggiungimento del welfare globale.
Le università stanno diventando il motore socio-economico della società. La risposta ai global challenges dipende sempre più dalle conoscenze scientifiche e dalle innovazioni tecnologiche che gli atenei mettono a disposizione per costruire e sostentare il benessere socio-economico di tutto il mondo
A favorire questo posizionamento di punta sono sicuramente le caratteristiche peculiari delle università. In primo luogo, le fabbriche del sapere vivo – come ogni altra istituzione sociale – sono state costruite per durare e hanno una visione di lungo periodo: la Harvard University è stata fondata 143 anni prima della nascita degli Stati Uniti e la Columbia University risale al 1754 quando a New York il governo legittimo era quello inglese di sua maestà re Giorgio II. Le accademie del vecchio continente sono addirittura più vecchie: l’Alma Mater Studiorum di Bologna è stata fondata nel 1088, la Cambridge University nel 1209 e la Sorbona di Parigi risale al 1253. Le università esistono dall’alba dei tempi, e per questo hanno sempre avuto modo di interfacciarsi con i problemi di interesse globale e non solo con quelli puramente accademici.
Un altro punto di forza è che tutte le università sono nate con l’obiettivo di migliorare il mondo gettando luce sui problemi attraverso l’insegnamento e la ricerca. In questo caso, fanno la differenza anche le minori interferenze – soprattutto politiche – che le università hanno rispetto ad altre istituzioni sociali: le ricerche e gli studi portati avanti dagli atenei (solitamente) non hanno scopo di lucro, non hanno interessi economici specifici e non sono appannaggio della politica nazionale.
A favorire questo posizionamento di punta sono sicuramente le caratteristiche peculiari delle università: le fabbriche del sapere vivo sono state costruite per durare e hanno una visione di lungo periodo. Inoltre, hanno l’obiettivo di migliorare il mondo gettando luce sui problemi attraverso l’insegnamento e la ricerca
Jeffrey Sachs, economista e saggista statunitense, e direttore dell’Earth Institute alla Columbia University, nel suo libro Il bene comune. Economia per un pianeta affollato mette in luce alcuni ostacoli che le università devono superare prima di diventare il vero il motore socio-economico della società. Innanzitutto, secondo Sachs: «Le università sono spesso riluttanti ad assumersi l’onere della soluzione di un problema pratico di sviluppo sostenibile di paesi poveri, come progetti per la promozione della salute pubblica o dello sviluppo economico».
Inoltre le università (così come i governi però) non sono ancora in grado di farsi carico in modo adeguato dei problemi globali e dello sviluppo sostenibile congiunto. Questo perché le principali attività di ricerca degli atenei sono divise sulla base delle facoltà e delle principali aree disciplinari, mentre tutti i problemi all’ordine del giorno – dall’inquinamento alla ricerca di nuove energie rinnovabili, dalla povertà estrema alla biodiversità – si sviluppano non in un ambito specifico ma a 360°. Così facendo però viene meno quel gioco di squadra che invece risulta essere necessario in un contesto di integrazione globale come il nostro.