Eutanasia? La fiction la racconta meglio della politica

Il tema del fine vita, con tutte le sue implicazioni etiche è spesso oggetto di battaglie politiche rozze e totalizzanti. Invece il racconto (e i film, e le serie televisive) rendono la "zona grigia" e la complessità dei drammi umani senza appiattirle sull'ideologia

Del caso di Dj Fabo non ho seguito molto. A parte qualche sprazzo di dibattito televisivo, qualche status su Facebook, qualche titolo giornalistico linkato su Twitter, me ne sono tenuto il più possibile alla larga.

Non ho casi di suicidi, assistiti o non assistiti, in famiglia, e non ho amici o conoscenti gravemente ammalati che pensano di farla finita al più presto.

Ho trent’anni e sono, credo, in buona salute.

Il caso di Dj Fabo non mi riguarderebbe direttamente. E non so del tutto spiegarmi perché me ne sento tanto toccato. Al punto che, dopo aver scaricato il modulo del “testamento biologico”, mi sono messo a scorrerlo per scoprire che non saprei assolutamente come compilarlo.

Mi sembra decisamente imbarazzante che io, che mi guadagno da vivere raccontando storie, e quindi avendo sviluppato il vizio di scrivere e riscrivere incessantemente la mia, non sappia cosa vorrei in un momento inevitabile: la fine.

Tengo il mio testamento biologico sul desktop del computer, mentre lavoro. Lo vedo ogni volta che chiudo una finestra, ci scorro sopra col cursore del mouse. Dopo cena lo apro, lo guardo, lo richiudo e mi metto a fare e disfare questo articolo. Un momento dicendomi che ho altre consegne più urgenti di cui occuparmi, che non ha senso infilarmi in un ginepraio di riflessioni su un tema di cui dubito di sapere abbastanza, un altro dicendomi che, per capirle meglio, e acquietarle, se non proprio esorcizzarle del tutto, mi farebbe bene mettere nero su bianco le ragioni di questa ossessione.

Tengo il mio testamento biologico sul desktop del computer, mentre lavoro. Lo vedo ogni volta che chiudo una finestra, ci scorro sopra col cursore del mouse

Qualità della vita o sacralità della vita?

Eutanasia. È una parola difficile da pronunciare, scrivere, e perfino pensare. Sul piano teorico, è un concetto che mi appare sinistro, alieno, spaventoso. Un argomento da evitare, in privato, in pubblico, e in parlamento, come testimonia l’aula deserta della Camera dove lunedì 13 marzo si è tenuta la discussione generale del progetto di legge sul testamento biologico davanti a poco più di venti deputati. Anche se non si trattava di una seduta esiziale per l’esito della proposta di legge, certamente la diserzione della maggioranza dei parlamentari è un segnale della spinosità dell’argomento.

Come nell’ episodio di South Park “Una questione di morte o di morte”. Il nonno di uno dei protagonisti, Stan, compie 102 anni. Come regalo di compleanno, chiede al nipote di aiutarlo a morire. Stan rifiuta, ma pressato dalla richiesta del nonno chiede agli adulti che cosa ne pensano. Risposta: “non tocco l’argomento nemmeno con un palo di 10 metri”.

Preso in astratto, è un argomento tabù. Estendendo il concetto, senza necessariamente trovare una formula per nominarlo, la morte volontaria, o necessaria, o assistita, come la si voglia chiamare, è in realtà qualcosa di decisamente più familiare: basta spostarlo dal piano etico e giuridico al piano narrativo, e tutto cambia.

Penso ai mille western e film di guerra in cui una morte pietosa è corredata di ultime parole, ultime sigarette, sorsi di bourbon e fiale di morfina. O ai grandi capolavori del cinema con morti volontarie protagoniste assolute della storia, come Le invasioni barbariche o La grande abbuffata. Provo a fare una ricognizione mentale, e subito mi vengono in mente le ultime lettere di suicidi eccellenti – da Tenco a Pavese, per intenderci –, o il servizio del telegiornale che riportava l’uscita di scena di Mario Monicelli, del suo veloce volo, quasi eroico. Poi penso alla serenità e all’inquietudine degli ultimi libri di Oriana Fallaci e Tiziano Terzani, entrambi malati terminali, e la catena di pensieri si spinge fino agli “uomini che cadono” dalle torri gemelle prima del crollo: scegliere di saltare dalla finestra, in quelle allucinanti immagini che dal 2001 a oggi rivediamo a ogni anniversario, non è stato forse scegliere una fine “volontaria”, più rapida e indolore, del restare a morire dentro una trappola di cristallo?

Ognuna di queste morti volontarie, ha una storia. Ognuna di queste morti è una storia. Con un inizio, uno sviluppo, e una fine.

Eutanasia. Preso in astratto, è un argomento tabù. Estendendo il concetto, senza necessariamente trovare una formula per nominarlo, la morte volontaria, o necessaria, o assistita, come la si voglia chiamare, è però in realtà qualcosa di decisamente più familiare: basta spostarlo dal piano etico e giuridico al piano narrativo, e tutto cambia

S’accabadora, pietà e discrezione

Forse perché oggi sono irrequietamente ateo, ma ho vissuto un’infanzia da fervente cattolico, quello che in questi giorni ho fatto fatica a mandare giù non è il comprensibile desiderio di farla finita di chi ha raggiunto il limite di sopportazione (la morte si sconta già abbastanza vivendo vite tutto sommato serene, figuriamoci se c’è bisogno di sofferenze aggiuntive), o l’altrettanto comprensibile desiderio di arginare pericolose derive scientiste di chi pensa che il mistero della vita vada al di là di quel che i nostri sensi riescono a percepire. Quello che mi ha paralizzato, rendendomi incapace di compilare il mio testamento biologico e rimuoverlo dal desktop, sono stati i toni polemici, esasperati, da stadio, delle opinioni degli opinionisti, portavoce tanto delle pretese di autodeterminazione più radicali sulla “qualità della vita”, quanto del più intransigente arroccamento sulla “sacralità della vita”.

La zona grigia, dell’etica e della legge, di cui tutti siamo o dovremmo essere a conoscenza, il buonsenso con cui questa complicata questione è stata trattata da sempre non trova posto nel dibattito pubblico quanto ne trovano le dichiarazioni di principio.

Nella mia terra d’origine, la Sardegna, s’accabadóra, lett. “colei che finisce”, incarnava con pietà e discrezione quello che oggi si vorrebbe ospedalizzare alla luce del sole.

La scienza, la politica, e la religione si sono dimostrate decisamente poco adatte, a mio modesto parere, a sciogliere interrogativi economici, sociali e morali decisamente più contraddittori e individuali di quanto ci farebbe comodo pensare pubblicamente quando un caso ci obbliga ad affrontare questo dibattito e rispondere ai nostri interrogativi. Io vorrei staccare la spina? Come compilerei il mio testamento biologico?

Nella nostra parte di mondo, al di là dei casi individuali, impugnati nelle campagne mediatiche e politiche volte a mobilitare le emozioni più disparate, l’eutanasia, l’accanimento terapeutico, gli aborti preventivi, gli uteri in affitto, la procreazione assistita e, in generale, i termini di manipolazione di inizio e fine della vita umana, in un contesto in cui l’allungamento dell’aspettativa di vita e il calo della natalità trasformano radicalmente il metabolismo occidentale nel ciclo tra nascita, riproduzione, sopravvivenza e morte, mi sembrano un problema di difficile soluzione.

Nella mia terra d’origine, la Sardegna, s’accabadóra, lett. “colei che finisce”, incarnava con pietà e discrezione quello che oggi si vorrebbe ospedalizzare alla luce del sole

Occidentali’s karma

Negli ultimi decenni, la popolazione italiana sopra i 65 anni è più che raddoppiata, quella sotto i 14 diminuita di un terzo: alla fine degli anni ’60 gli anziani erano la metà dei giovani, oggi sono una volta e mezzo.

Forse conviene partire da qui.

E da una logica conclusione: l’industria dei servizi sanitari, in risposta a queste nuove proporzioni, sta vivendo una fase di accanita concorrenza tra colossi privati e statali – tra strutture ospedaliere, gruppi assicurativi, gruppi chimico-farmaceutici e biomedicali, fino all’edilizia ospedaliera – per accaparrarsi quote maggiori di spesa pubblica e spesa privata.

In soldoni, si tratta di un business enorme. Vogliono guadagnare di più, che c’è di male?

C’è di male, naturalmente, che dove c’è profitto le influenze si moltiplicano, le idee si orientano di conseguenza, e politica e media non sono e non possono essere neutrali. Non è qualcosa che non dovrebbe preoccuparci parecchio.

Stando sul terra terra: gli anziani occidentali hanno case e patrimoni da lasciare.

Figli e nipoti non sono tutti di specchiata moralità. Vedi alla voce: piccolo Stan di South Park.

Solo che in Italia, il “fine vita” dei nostri anziani riguarderebbe il lascito di migliaia di miliardi di euro. Come possiamo assicurarci che l’avidità degli eredi non incida “legalmente” sui destini dei malati?

D’altra parte, non solo anagraficamente, le nostre famiglie sono enormemente cambiate.

Il lavoro femminile, dalla fine della seconda guerra mondiale, è diventato un motore di mutamento sociale ben più rivoluzionario nei rapporti fra i sessi di quanto le manifestazioni femministe che hanno accompagnato quel processo lascerebbero intendere. Hanno fatto molto di più le nostre mamme andando all’università e a lavorare, che le bruciatrici di reggiseni in piazza.

Non si tratta di rivendicazioni concrete o ideali, si tratta di fatti: le donne che un tempo si occupavano di bambini e anziani dentro le mura domestiche oggi hanno carriere e desideri sempre più identici a quelli maschili. Per fortuna, naturalmente, ma il problema rimane: chi si occuperà di quelle donne e di quegli uomini, quando non saranno più in grado di occuparsi di se stessi?

Il “fine vita” dei nostri anziani riguarderebbe il lascito di migliaia di miliardi di euro. Come possiamo assicurarci che l’avidità degli eredi non incida “legalmente” sui destini dei malati?

Dove c’è welfare, c’è speranza?

Nelle nostre metropoli, in tempi di individualismo e tagli di spesa pubblica con vincoli continentali capestro da rispettare, baby sitter e badanti sono diventati la nostra vera “famiglia allargata”. Una famiglia perfino più rappresentativa di quelle omogenitoriali e multietniche che stanno arricchendo di sfumature l’arcobaleno di affetti di quella che, per Stato e Chiesa, è ancora “la cellula della società umana”. Ma che è sempre più lasciata a se stessa in comunità che non hanno più niente a che fare con il senso di comunità che si percepiva nei paesini e nei quartieri del dopoguerra. Il boom è finito. Quello che stiamo vivendo è il preludio di un kaboom. Come sa chiunque abbia un malato in famiglia, o chiunque abbia dei figli piccoli, – figli + precarietà + anziani = l’odierna condizione del nascere e morire. Tragicamente insterilita nella crisi demografica, preda del calcolo cieco degli interessi economici o imprigionata nella solitudine fisica, economica e morale dei singoli di fronte alle difficoltà.

Anche se sono i singoli a morire (si nasce e si muore tragicamente soli) la morte resta un fenomeno sociale: lo era quando gli esseri umani erano ancora riuniti in gruppi nomadi di cacciatori-raccoglitori, lo è tanto più oggi che siamo diventati stanziali rentier, schizofrenici freelance e salariati: definire in termini di “diritti individuali” i nessi sociali della specie umana non è esattamente una passeggiata. Occorre comprenderne la storia. Né una bella operazione culturale da sostenere. L’abbandono degli anziani non più autosufficienti praticato in alcune società primitive, o l’infanticidio femminile con cui per secoli, e ancora oggi con l’aborto selettivo, si è selezionato il sesso dei nascituri nelle campagne asiatiche, dovrebbero farci riflettere. La morte, come la nascita, non è una manifestazione estemporanea, ma un processo di cause ed effetti parte integrante di una determinata società umana. Non solo da un punto di vista biologico (il momento del trapasso, come il momento del concepimento, è un argomento piuttosto dibattuto). Si tratta di un processo che non avviene in condizioni laboratoriali, ma in precisi contesti storici e geografici, economici e sociali. Il senso della morte, in relazione alla vita, non è più oggettivo del senso della bellezza nell’arte. È qualcosa che cambia, nel tempo e nello spazio.

Quelli che dalle nostre parti consideriamo “diritti individuali” non esistono nemmeno nella maggior parte del mondo, dove ad esempio, per paradosso, il problema del fine-vita si pone più all’inizio del ciclo vitale che non alla fine. Basta pensare ai tassi di mortalità infantile: frazioni infinitesimali della spesa per il consumo sanitario volto a migliorare la qualità della vita delle nostre senescenti metropoli sarebbero sufficienti a risolvere i problemi di idratazione di milioni di bambini che muoiono, ogni giorno, di dissenteria nei villaggi africani. Questo vuol dire che ogni nostro anziano, potenzialmente, “vale” centinaia di bambini poveri. Vuol dire che dovremmo sacrificare i nostri nonni per salvare i bambini poveri? Non credo. Ma non credo che non mettere in scala le nostre preoccupazioni riguardo alla vita e la morte rispetto alle condizioni generali in cui l’umanità nel suo complesso si rapporta con la vita e con la morte, sia una soluzione ragionevole.

Siamo cresciuti con l’ammonimento: “tu sprechi il cibo mentre ci sono bambini che muoiono di fame nel mondo”. Ma come sappiamo il problema non sarebbe stato risolto dal mio raffreddato piatto di minestra di verdure inviato a un bambino denutrito (mamma, mi spiace, continuo a non mangiare mai il minestrone). Il mondo in cui viviamo è però anche questo: nessuno vorrebbe che i bambini morissero di fame, eppure muoiono. Nessuno di noi può dire di non sapere che accade migliaia di volte al giorno, semplicemente non facciamo niente, o quasi, per risolvere il problema. E dovremmo pensare alla salute del mondo, nel suo complesso, per poterci approcciare col giusto spirito alla gestione dei casi più amari e particolari di casa nostra.

Perché, davvero: dovremmo pensare che l’ipocrisia e le differenze sociali non riguarderebbero ampiamente anche i nostri problemi sanitari?

Quelli che dalle nostre parti consideriamo “diritti individuali”, non esistono nemmeno nella maggior parte del mondo, dove ad esempio, per paradosso, il problema del fine-vita si pone più all’inizio del ciclo vitale che non alla fine. Basta pensare ai tassi di mortalità infantile

Io prima di te

Parlavo con un’amica di questo accrocchio di articolo che stavo mettendo in piedi. “Devi assolutamente vedere Io prima di te”, mi dice. Così vedo questo film tratto dall’omonimo romanzo di Jojo Moyes che, per snobismo non avevo mai preso in considerazione.

Proprio il successo commerciale che mi aveva tenuto a distanza, è invece l’aspetto più rivelatore dell’attualità del tema. Che, naturalmente, è l’eutanasia.

La storia è semplice: la protagonista (Emilia Clarke, cioè la madre dei draghi di Game of Thrones, che mi sembra comunque un’informazione essenziale), spinta dal bisogno di soldi inizia ad assistere Will Traynor, un banchiere tetraplegico reso cinico dalla durezza della sua condizione in seguito a un incidente. Ne nasce una storia d’amore mainstream, un cinquanta sfumature di grigio senza sesso: la ragazza sognatrice di umili origini che si innamora di un uomo di un ambiente alto-borghese. Una commedia, simile ad altre incentrate sulle limitazioni fisiche, come “Quasi Amici” e “Colpa delle stelle”. Drammaturgicamente e stilisticamente, niente di più lontano da un capolavoro. Ma i temi che solleva sono decisamente spiazzanti: l’ironia di lui, capace di gestire la sua condizione con superba eleganza, il desiderio sessuale, la forza dell’amore, la tentazione della morte, la complicità, il futuro di chi resta. Alla fine lui muore. Lei vive. Ed eredita. Un finale alla La la land.

Noi sappiamo che il loro era amore vero. Abbiamo visto la protagonista tentare in tutti i modi di dissuadere il protagonista dal togliersi la vita. Li abbiamo visti godere insieme di tutte le possibilità che il denaro di lui poteva offrire loro. Si sono divertiti. Hanno flirtato. Le inquadrature strette in primi piani su di lui ci hanno fatto dimenticare più di una volta la sua condizione. La vita è bella. Gran parte degli aspetti più umilianti che una condizione del genere impone sono stati risparmiati a noi e alla protagonista (chi lo cambiava? chi lo lavava?). Ma quanti sono i malati in grado di permettersi, anche in condizioni impossibili, di vivere in un modo così splendente il percorso di rapido avvicinamento alla morte?

E cosa penseremmo, nel mondo reale, di una badante che eredita una bella somma di denaro dal suo assistito morto “volontariamente”?

C’è da togliersi il cappello davanti a una storia così sapientemente costruita a tavolino, capace di instillare commozione agli spettatori come poche altre, proprio attraverso uno sguardo rassicurante che però non ha niente di consolatorio. Rendere “sexy” un tetraplegico, non era facile, ci vuole maestria per stare nel canone dei film d’amore e trovare nuove strade per farli incassare. In questo caso, con la sfida narrativa finale: sopravvivere senza happy ending.

Cosa penseremmo, nel mondo reale, di una badante che eredita una bella somma di denaro dal suo assistito morto “volontariamente”?

Mary Kills People

È una nuova serie televisiva canadese. In sei puntate seguiamo la protagonista, Mary Harris, dottoressa del pronto soccorso che, insieme al suo partner – un chirurgo plastico radiato dall’albo – aiuta i malati terminali a morire in modo dignitoso. Previo compenso di 10.000 dollari. Cifra simbolica?

La serie è godibilissima anche da un punto di vista prettamente drammaturgico. Piena di colpi di scena, indagini, relazioni sessuali e sentimentali, retroscena torbidi, fughe, dubbi morali dei protagonisti, umorismo nero. Il tutto reggendo benissimo da un punto di vista estetico, compensando la mancanza di guizzi registici e interpretativi con un ritmo avvincente e incalzante che tiene incollati alla storia.

Ma la vicenda umana di Mary, al netto della messa in scena, non può che farci duellare costantemente, dall’inizio alla fine, con la materia incandescente che tratta: il fine vita. E su quel che ne pensiamo.

Mano a mano, non sapremo come giudicare esattamente le azioni di Mary: è una pietosa progressista o una serial killer? È un’avida donna d’affari o una confusa donna sull’orlo di una crisi di nervi?

I problemi legali e logistici, personali e morali, non sono evitati dagli sceneggiatori, ma abilmente affrontati sempre seguendo il mantra dello storytelling contemporaneo: show don’t tell.

“Primo non nuocere” diventa “primo raccontare una storia”.

Nel momento più ambiguo della prima stagione vediamo Mary che affronta mille avversità per “occuparsi” di un paziente. Il malato terminale, fermamente determinato a morire, mentre sta morendo, le chiede di raccontargli una storia. Sherazade all’incontrario, Mary gli racconta di quando da ragazzina ha ucciso la madre, malata di mente, affogandola in un lago. Più che un racconto, è una confessione. Ma a chi si sta confessando, visto che il suo confessore lascia sul finale questa valle di lacrime?

E cosa dobbiamo pensare della storia d’amore fra Mary e il poliziotto sotto copertura che cerca di incastrarla? Ognuno dei due sembra voler fregare l’altro. Ognuno racconta una storia differente di se stesso all’altro, fino a confondere, anche nella mente di noi spettatori, il punto di vista. Con chi stiamo? Chi siamo? Cosa vorremmo per noi stessi, o per un nostro caro, quando fosse venuta l’ora?

E ancora, cosa dobbiamo pensare, quando un uomo considerato spacciato da Mary, resuscita dal coma? Rimaniamo attoniti, come lei, se pensiamo che avrebbe potuto non riabbracciare più la sua famiglia e diventiamo meno sicuri che il suo punto di vista sia l’unico possibile e al servizio del benessere umano. E se succedesse a noi? O a un nostro caro?

D’altra parte, quando un malato terminale la rassicura dicendole che i cattivi torturatori sono quelli che non permettono alle malattie di uccidere in fretta, prolungano l’agonia dei malati, non possiamo non pensare a Dj Fabo e ai suoi appelli, come quello su YouTube in cui racconta il suo dramma “banale”: non riuscire a grattarsi la testa. E impazzire di prurito.

Prima di ucciderli – anzi: farli uccidere da soli, bevendo, davanti a una videocamera, una coppa di champagne e pentobarbital – Mary si fa raccontare la loro storia. Ogni malato terminale registra i propri traguardi e le proprie sconfitte, si racconta, a se stesso e al mondo, per l’ultima volta, i complessi rapporti di causa e effetto che lo hanno portato fin lì. La malattia, la scelta della fine. Ed è solo a quel punto che bevono il calice e salutano questo mondo, a modo loro. Un monumentale lavoro di drammaturgia in cui tutto è una questione di dosaggi e confini tra stati di irrimediabilità, tra fiction e politica, cause ed effetti, vita e morte.

A differenza di scienziati, politici e opinionisti, i narratori contemporanei sanno rendere il tema del fine vita allo stesso tempo realistico e astratto, individuale e collettivo: contraddittorio. Come è.

E sanno aiutarmi a compilare il mio testamento biologico.

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