Quasi la metà dei lavori è destinata a scomparire sotto la scure della tecnologia. È questa, in sostanza, la previsione di Carl Benedikt Fray e Micheal Osborne della Oxford University, secondo i quali nei prossimi 15-20 anni il 47% dei posti di lavoro negli Usa è a rischio. E per gli altri Paesi le previsioni sono simili. «Sono stime apocalittiche», commenta Stefano Scarpetta, direttore del dipartimento Lavoro, occupazione e politiche sociali dell’Ocse. «Se così fosse, ci aspetta un futuro di massiccia disoccupazione». Ma così non è, spiega l’economista, che il 30 maggio interviene al Jobless Society Forum organizzato a Milano dalla Fondazione Feltrinelli per discutere del futuro del lavoro. «La tecnologia non avrà conseguenze così disastrose. Il punto non è quanti lavori verranno sostituiti dai robot e quanti invece ne verranno creati, ma quanta diseguaglianza sarà prodotta dall’innovazione tecnologica. La vera sfida che abbiamo davanti è colmare il gap delle competenze e della formazione».
Cominciamo dai numeri. Qual è la previsione dell’Ocse sul tasso di automazione del lavoro in futuro?
Partendo dallo studio di Frey e Osborne, abbiamo usato un approccio differente. Le previsioni di Oxford si muovono infatti dall’idea che nello stesso tipo di professione i lavoratori abbiano competenze e mansioni uguali. Nel nostro caso invece siamo partiti dal presupposto che nella stessa professione i lavoratori abbiano mansioni e competenze differenti. Un tecnico meccanico farà lavori diversi a seconda che sia occupato in fabbrica o in una società che ripara autovetture. Le nostre stime suggeriscono quindi che i lavori a rischio siano circa l’8-10%. Un altro 20-25% dei posti di lavoro invece, caratterizzato da un tasso di automazione tra il 50 e il 70%, non sparirà ma cambierà radicalmente. Per cui bisognerà adeguarsi e imparare a convivere con le macchine.
Il vero punto non è quanti lavori scompariranno e quanti ne verranno creati, ma quanta diseguaglianza sarà prodotta dall’innovazione tecnologica. La rivoluzione digitale premia chi ha competenze più elevate, lasciando indietro chi ha competenze più basse
Sopravviveranno quindi solo i lavoratori con le maggiori competenze digitali?
Il vero punto non è quanti lavori scompariranno e quanti ne verranno creati, ma proprio quanta diseguaglianza sarà prodotta dall’innovazione tecnologica. La rivoluzione digitale premia chi ha competenze più elevate, lasciando indietro chi ha competenze più basse. Si crea quindi una frattura tra chi può accedere ai nuovi lavori ad alta competenza, alti salari e alte prospettive di carriera e chi non avendo queste skill sarà relegato nei lavori a bassa qualifica. Il nostro punto di vista è questo: i robot non portano necessariamente a una disoccupazione tecnologica massiccia ma a forti diseguaglianze. Assistiamo ormai a una forte polarizzazione nel mercato del lavoro.E questo cosa comporta?
I lavori intermedi stanno diminuendo. La domanda di lavoro si polarizza tra occupazioni con alti livelli di competenza e altre scarsamente qualificate. La prospettiva è anche quella di un aumento delle diseguaglianze salariali: per alcuni gli stipendi cresceranno, per altri caleranno.La domanda è: i lavoratori hanno le competenze digitali necessarie per poter affrontare questa trasformazione senza essere schiacchiati?
I dati a disposizione ci dicono di no. In Italia più del 50% dei lavoratori ha competenze digitali basse, legate all’uso del computer o dello smartphone, e questa percentuale è in linea con la media dei Paesi Ocse. Per i giovani tra i 25 e 34 anni le competenze sono più elevate, ma per un terzo restano ancora basse. E in questo l’Italia è fanalino di coda insieme a pochi altri Paesi tra cui la Spagna.Cosa bisogna fare?
La grande scommessa è puntare su competenze di base solide, partendo proprio dalla scuola e dalle università. Oltre a riqualificare necessariamente chi è già sul mercato del lavoro, investendo nella formazione continua. Ma occorrerà cambiare approccio, perché anche nella formazione le disegueglianze possono essere acuite.Cioè?
I datori di lavoro tendono a concentrare la formazione tra le qualifiche più alte in azienda. Più bassa è la qualifica, minore è la formazione. In tutti i Paesi Ocse i lavoratori più qualificati hanno una probabilità tre volte maggiore di fare formazione rispetto ai colleghi meno qualificati. Ma è su questi ultimi che bisogna investire. Se non facciamo questo, anche una soluzione come il reddito minimo universale, che viene evocato da più parti a proposito di un mondo senza lavoro, non basterà.I datori di lavoro tendono a concentrare la formazione tra le qualifiche più alte in azienda. Più bassa è la qualifica, minore è la formazione. In tutti i Paesi Ocse i lavoratori più qualificati hanno una probabilità tre volte maggiore di fare formazione rispetto ai colleghi meno qualificati. Ma è su questi ultimi che bisogna investire
Che tipi di investimenti servono?
Bisogna investire di più e investire meglio. Anche con partnership tra pubblico e privato. La sola formazione decisa dal datore di lavoro va nell’interesse dell’impresa, non dell’individuo e di una sua possibile ricollocazione nel mercato. In Francia, ad esempio, è stato introdotto il conto personale di formazione e ogni lavoratore ha diritto a un certo numero di ore di formazione per sé. Bisogna prepararsi a un mondo in cui ci saranno più lavoratori indipendenti, un mondo in cui nel corso della vita si fanno più lavori o anche più lavori nello stesso momento. E le politiche sociali, finora rivolte per lo più ai dipendenti, dovranno cambiare.In quale direzione?
Bisogna garantire un minimo di protezione sociale per tutti, non più legata al contratto ma al lavoratore, seguendolo da un lavoro all’altro. Oggi 17 dei Paesi Ocse non hanno un sussidio di disoccupazione per gli autonomi, e in dieci Paesi per gli indipendenti non è prevista una copertura per gli incidenti sul lavoro. C’è una diseguaglianza in termini di protezione sociale che crea ulteriore polarizzazione. È su questo che bisogna lavorare da subito.