Più di 82 vittime registrate, il 96 per cento dei ragazzi muore da solo, il 93 per cento dei genitori non è a conoscenza del fatto che il proprio figlio stia praticando quel gioco. E ancora: l’età più a rischio va dai 6 ai 19 anni, con una media di 13, gli incidenti mortali si moltiplicano col passare del tempo e le segnalazioni giungono da tutto il Paese: erano solo tre o quattro nel 2004, più di 20 casi l’anno successivo e più di 30 nel 2006. I motivi? Sempre gli stessi, forse incomprensibili, la ricerca di un mix di eccitazione e di paura, di uno stato di euforia tale da poter addirittura diventare letale.
Sembra la descrizione del nuovo fenomeno che terrorizza le famiglie e scalda gli animi sulla stampa di inquirenti, polizia postale, psicologi: il Blue Whale – la balena blu – il “gioco” che sarebbe esploso nei meandri di VK, il principale social network russo, per poi espandersi a macchia d’olio in Europa, e che dopo una serie di 49 prove, spesso macabre, orchestrate da un “master” in grado di condizionare anche a distanza le fragili menti di un adolescente, conducendolo infine al suicidio filmato come ultima e tragica di queste.
Più di 82 vittime registrati, il 96 per cento dei ragazzi muore da solo, il 93 per cento dei genitori non è a conoscenza del fatto che i figli siano in quella situazione. Solo che non parliamo di Blue Whale, il “gioco” del suicidio che correi sui social, ma dei suoi predecessori che esistono da decenni. Ben prima di internet
Solo che i numeri sopra non si riferiscono al Blue Whale. Ma al “blackout game” o “pass out game”, noto anche come “scarf game”, “space monkey” e decine di altri nomignoli in giro per gli Stati Uniti che indicano tutti lo stesso genere di attività: soffocarsi, da soli o in compagnia, con le braccia o con corde, sciarpe, catene. E fotografarsi o filmarsi nel farlo. I numeri sono quelli forniti da Robert L. Tobin del National Centre for Injury Prevention and Control degli Stati Uniti. Non a maggio 2017, bensì il 12 febbraio 2007, dieci anni prima, in un articolo del Washington Post. «Giochi simili sono stati praticati per generazioni probabilmente – aggiungeva il ricercatore americano – il fattore nuovo è che vengono praticati in solitudine e i fattori di rischio o la probabilità di morire aumentano proprio per questa ragione».
E che dire del ragazzino di 14 anni della Chipman Middle School di Harrington che il weekend del 14 ottobre 2014 è stato trovato morto dai genitori in camera sua nel Delaware, dopo aver tentato di privare il cervello dell’ossigeno per procurarsi uno stato di euforia – come dichiarò all’epoca alla stampa locale Gary Fournier, il portavoce della polizia? L’adolescente stava praticando un ulteriore versione del “gioco” menzionato sopra: il “Chocking game”, talmente noto da meritarsi anche una pagina in inglese di Wikipedia con tanto di bibliografia piuttosto amplia e dettagliata. Il ragazzo non lo aveva imparato sui social, non aveva postato messaggi sibillini in bacheca o piazzato telecamere per filmarsi e rendere pubblico al mondo il proprio gesto.
Il “chocking game”, il “blackout game” o “pass out game”, noto anche come “scarf game”, “space monkey” e decine di altri nomignoli che indicano tutti lo stesso genere di attività: soffocarsi, da soli o in compagnia, con le braccia o con corde, sciarpe, catene
E bisognerebbe ricordarselo anche in queste settimane mentre in Italia la “narrazione” della nuova frontiera del Blue Whale esplode: da che nessuno ne aveva mai sentito parlare – né genitori, psicologi, assistenti sociali, insegnati, magistrati inquirenti – improvvisamente appaiono numeri di telefono e catene su Whatsapp dove il gioco inizierebbe – e che poi si rivelano una bufala. Solo a Fiumicino, nel Lazio, emergono ben cinque casi di cui fortunatamente nessuno ha avuto un esito mortale. Sui diari delle ragazzine coinvolte spuntano balene azzurre disegnate – dall’espressione che dà il nome al “gioco”, proprio in virtù del comportamento dei cetacei che finiscono per “perdersi” o spiaggiarsi prima della morte come i giovani si perderebbero nel seguire le indicazioni dell’invisibile sadico che li controlla.
La Polizia Postale, contattata daa giornali, fornisce un elenco di cinque consigli o norme a cui famiglie e amici dovrebbero prestare attenzione per cercare di capire in anticipo se qualcuno fra le proprie conoscenze è un soggetto a rischio. Fra i suggerimenti compaiono anche consigli di puro buon senso come “prestare attenzione ai cambiamenti repentini di umore e rendimenti scolastici”; “osservare se ci sono comportamenti masochistici come ferite auto inflitte” o “aumentare il dialogo sulla sicurezza in rete”. L’intera vicenda di Blue Whale viene pompata prima dai tabloid inglesi per poi finire sulla stampa generalista e in televisione grazie a un servizio delle Iene che dà adito a un non ben precisato “allarme”. Ma gli approfondimenti e le analisi che non si fermano alla superficie mostrano come proprio nei meandri del web e nel dark net esistano da sempre gruppi dedicati alla scottante tematica del suicido. Non dei gruppi di incitamento – anche se può accadere che infiltrati spingano in quella direzione o che il solo parlarne “normalizzi” quel gesto. Non sono nemmeno forum di auto aiuto, non solo, ma piuttosto luoghi dove il suicidio possa essere affrontato e discusso in maniera “laica”, senza quella coltre di tabù che lo rivestirebbe in una normale conversazione quotidiana. Ed è l’anonimato garantito dalla rete che permette questo tipo di discussione.
Da sempre esistono in angoli remoti del web gruppi o forum dedicati alla scottante tematica del suicidio, dove se ne discute in maniera “laica”, come se non fosse un tabù. E questo avviene proprio per via dell’anonimato che internet garantisce
A voler scavare ulteriormente si scopre anche che i “giochi del suicidio”, nelle loro varie declinazioni, non nascono certo oggi come degenerazione di una gioventù bruciata senza valori e iper connessa. Di casi singoli ne sono piene le cronache internazionali. Si trovano numeri, riviste e bollettini del The American Journal of Forensic Medicine and Pathology in cui i dottori raccontano con statistiche, tabelle e gergo medico inalterato l’evoluzione del fenomeno, dal 1995 in poi. Con descrizioni, nude e crude, di vere e proprie scene macabre che hanno coinvolto bambine o poco più (11-12 anni) ritrovate legate ai letti con con collari e guinzagli e le vie respiratorie bloccate. Gli studiosi pongono anche l’accento su una certa concentrazione geografica di questi avvenimenti: nel periodo da loro considerato, e sul territorio americano (pur con riferimenti a quanto avveniva in Australia, Irlanda, France, Regno Unito, Israele e Canada), a guidare la sfortunata classifica è lo stato del New Hampshire.
Una geografia del suicidio, quindi, in maniera non dissimile da quanto si proponeva di fare uno dei più grandi sociologi della storia, Émile Durkheim, nella sua opera Il suicidio. Studio di sociologia. Nel 1897, ben prima che esistessero Facebook, VK in Russia o internet.