Antologia del franco tiratore, padrone senza nome del Parlamento

Si nascondono nel segreto del voto. Colpiscono alle spalle e spariscono. Hanno sulla coscienza elezioni e carriere, nomine e accordi. Dai traditori di Carlo Sforza nel 1948, ai misteriosi 101 che fecero cadere Prodi. La legge elettorale è solo l'ultima vittima di un’antica istituzione repubblicana

Si nascondono silenziosi nel segreto del voto. Sono cecchini infallibili, colpiscono alle spalle e spariscono. Hanno sulla coscienza elezioni e carriere, nomine e accordi. I franchi tiratori sono l’incubo di ogni leader di partito, i veri padroni del Parlamento. Presenza inquietante e imprescindibile della vita repubblicana. La prima vittima illustre è stato Carlo Sforza, il ministro degli Esteri in corsa per il Quirinale nel 1948. Diplomatico inviso alla sinistra democristiana e accoltellato nell’ombra da un centinaio di colleghi. Nel frattempo, secondo la leggenda, lo sfortunato aveva già scritto il discorso da leggere al momento del giuramento, poi stracciato. L’ultimo caduto, invece, risale a un paio di giorni fa. È l’accordo sulla legge elettorale tra Forza Italia, Partito democratico e Cinque Stelle. Impallinato da un anonimo plotone di traditori, in probabile rappresentanza di tutti i partiti coinvolti.

Il franco tiratore è un’istituzione, un mito repubblicano. Un sicario istituzionale e democratico, sia chiaro. Del resto agisce al riparo dello scrutinio segreto, massima tutela della libertà dei nostri parlamentari. Protetto dall’articolo 67 della Costituzione e dai regolamenti di Camera e Senato. Beffardo, talvolta. Come il misterioso cecchino che nel 1971, si narra, durante la votazione per eleggere il presidente della Repubblica rimò sulla scheda: “Nano maledetto, non sarai mai eletto”. L’obiettivo, sempre secondo la leggenda, era il democristiano Amintore Fanfani, il principale candidato per il Colle. Costretto ad assistere alla conta dei voti – e alla lettura del messaggio – in quanto presidente del Senato. La storia si colora di particolari. Obbligato a fare un passo indietro dai franchi tiratori che non ne permettevano l’elezione, allo scrutinio successivo Fanfani avrebbe trovato un’altra nota: «Te l’avevo detto, nano maledetto, che non venivi eletto». E chissà se è solo una favola.

I franchi tiratori non fanno prigionieri. Lo sa bene Romano Prodi, che alle prime battute di questa legislatura sembrava a un passo dal Quirinale. Ha dovuto desistere dopo essere stato impallinato da 101 misteriosi traditori, una schiera ormai entrata nella storia. Tanto che, nonostante i sospetti, ancora oggi non si conosce con certezza l’identità dei congiurati

Di certo Fanfani è una delle vittime ricorrenti. Più volte candidato al Quirinale, sempre costretto a desistere. Nel ’71, al suo posto, la spuntò Giovanni Leone. Ma sette anni prima allo statista napoletano era toccata la stessa sorte. Designato dalla Dc, costretto a un’estenuante serie di scrutini durante le feste natalizie, alla fine obbligato a ritirarsi per l’ingestibile presenza in Aula di franchi tiratori. Per la cronaca quella volta fu scelto Giuseppe Saragat. La storia della prima repubblica è ricca di aneddoti. Sandro Pertini salì al Quirinale nel 1978. Eletto con 832 voti, una larghissima maggioranza. Eppure, si racconta, per anni continuò a cercare i nomi dei parlamentari che nel segreto dell’urna gli avevano fatto mancare il loro sostegno. Resta negli annali anche la sconfitta di Arnaldo Forlani, il segretario democristiano proposto per la presidenza della Repubblica nel 1992. Costretto ad arrendersi dopo essersi scontrato con l’accanita resistenza di un misterioso manipolo di franchi tiratori (ma in un paio di occasioni gli erano mancati solo una trentina di preferenze sulla strada verso il Quirinale).

Si appostano, colpiscono, si dileguano. La metafora militare è pertinente. Non a caso le radici del fenomeno risalgono alla guerra franco-prussiana: nel 1870 il franc-tireur era il combattente impegnato contro le truppe regolari. Una lotta impari, spesso affidata ad agguati e imboscate. In Parlamento si è tentato invano di porre resistenza alle stesse insidie. Previsto dallo Statuto Albertino, nel 1939 Benito Mussolini decise di abolire il voto segreto. Nonostante le resistenze di molti statisti, tra cui il democristiano Aldo Moro, il sistema di voto fu reintrodotto nella fase repubblicana. Alcune importanti limitazioni furono introdotte solo nel 1988 con la riforma dei regolamenti parlamentari. Si dice che in quell’occasione fu determinante la posizione di Bettino Craxi. Ironia della sorte pochi anni più tardi, era l’aprile 1993, il leader socialista venne salvato proprio dal voto segreto quando la Camera negò l’autorizzazione a procedere nei suoi confronti.

Si appostano, colpiscono, si dileguano. La metafora militare è pertinente. Non a caso le radici del fenomeno risalgono alla guerra franco-prussiana: nel 1870 il franc-tireur era il combattente impegnato contro le truppe regolari. Una lotta impari, spesso affidata ad agguati e imboscate

Anche la seconda Repubblica è piena di vittime. I franchi tiratori non fanno prigionieri. Lo sa bene Romano Prodi, che alle prime battute di questa legislatura sembrava a un passo dal Quirinale. Ha dovuto desistere dopo essere stato impallinato da 101 traditori, una schiera ormai entrata nella storia. Tanto che, nonostante i sospetti, ancora oggi non si conosce con certezza l’identità dei congiurati. E prima di lui era toccato a Franco Marini, altro candidato del centrosinistra, costretto ad arrendersi davanti a un esercito di oltre 200 novelli francs-tireurs. Quirinale, ma non solo. Nel 2014 i misteriosi impallinatori hanno affossato anche diversi aspiranti giudici costituzionali. Uno dopo l’altro hanno dovuto dire addio alla Consulta, tra gli altri, l’ex presidente della Camera Luciano Violante e Antonio Catricalà, già presidente dell’Antitrust. Entrambi indicati negli accordi di partito, tutti e due pugnalati alle spalle nel segreto del voto. Ennesime vittime illustri di una delle più antiche istituzioni repubblicane.

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