“L’isola di Pietro” è quello che si merita quest’Italia ferma al 1955

Guardare la fiction con Gianni Morandi in onda domenica su Canale5 è come salire sulla macchina del tempo. Nel 2017 le fiction italiane sembrano identiche a quelle di 60 anni fa. Hanno tanti ascolti perché rappresentano l’arretratezza culturale del Paese

Guardare “l’Isola di Pietro” (domenica, Canale5) è come salire sulla macchina del tempo del Doc di “Ritorno al Futuro”: si setta la data del 1955 e via, in un attimo si torna indietro ai tempi del Governo Scelba.

Se qualcuno si fosse perso il “pilot” della nuova fiction Mediaset campione di ascolti (oltre il 20% di share per 4,65 milioni di spettatori, cifre da record considerando il momento) il tutto può facilmente essere riassunto così: immaginate una serie a caso di Netflix e fate conto di somministrare a chiunque ci abbia lavorato, dal regista agli sceneggiatori, dalle comparse agli addetti ai costumi, un cocktail micidiale di Xanax e morfina.
Ecco, il risultato sarà “l’Isola di Pietro” con Gianni Morandi. Ma perché nel 2017 la fiction italiana è identica a quella del 1955?

Perché mentre in tutto il Mondo Occidentale l’opinione pubblica mainstream celebra il successo di Narcos 3, mitiga la delusione per una stagione sotto le aspettative di Games of Thrones con l’attesa per i nuovi episodi di Black Mirror e si interroga sul genio di BoJack Horseman, da noi la gente non vede l’ora di scoprire cosa accadrà sull’isola di Carloforte, dove quel bonaccione di Gianni, insieme al cane Mirto e all’inviato di Striscia che dice “Aiò”, indaga sul pasticciaccio brutto della Vecchia Tonnara?

Si dice spesso che è un problema di budget, che ormai le serie TV hanno raggiunto un grado di ricchezza produttiva tale per cui certe cose possono permettersele solo in America (un episodio di Breaking Bad costava pur sempre 3 milioni di dollari in media). Ma questo non spiega come mai ci siano altri Paesi europei non anglofoni, come la Francia, la Danimarca o la Germania, dove vengono scritte e prodotte serie come The Killing o Les Revenants, vendute in tutto il mondo e non solo ad uso e consumo dei propri immigrati, come si fa con il Commissario Montalbano in Sud America o in Germania.

Si cita il caso Gomorrah, dimenticandosi però che di Gomorrah ce n’è una sola, che tutta Sky ha meno abbonati che l’audience di una sola puntata del Gianni Nazionale (per giunta concentrati tutti al Nord o nella zona intorno a Roma) e che – soprattutto – con Gomorrah siamo comunque dalle parti della Mafia e del Padrino, ovvero le rassicuranti mura domestiche della Piovra.

La verità è che pochi ambiti raccontano il clima stantio e l’arretratezza culturale del Paese meglio di quello della fiction televisiva, un ambito in cui il divario tra noi e gli altri è ormai diventato mostruoso. Mentre le avventure del pediatra Gianni sbancano l’Auditel, piattaforme come Netflix e Amazon Prime devono fare i conti con un Paese in cui, secondo una rilevazione Istat del 2016, il 25% dei cittadini considera internet uno strumento “non utile e non interessante” e le classifiche europee sull’accesso alla banda larga ci vedono orgogliosamente agli ultimi posti.

La nostra fiction riflette quel drammatico dualismo presente nella società che vede due contrapposte due Italie. Quella “digital”, giovane ormai solo nello spirito ma spesso affamata nel corpo, perfettamente a conoscenza di quanto accade oltre le Alpi; e c’è un’Italia “analogica”, convinta che il meglio sia alle spalle, che come un pugile suonato mena colpi alla rinfusa contro tutto quanto ci sia di nuovo e di diverso.

Il tutto nel totale disinteresse della classe politica, compresa quella di nuova generazione che tecnicamente dovrebbe venire dai blog e che invece – davanti alla concreta possibilità di governare – per mettere le cose in chiaro ha subito preso a pomiciare con l’ampolla di San Gennaro. Prima che essere economico il problema è quindi culturale.

La nostra fiction riflette quel drammatico dualismo presente nella società che vede due contrapposte due Italie, due visioni del mondo opposte. C’è un’Italia “digital”, giovane ormai solo nello spirito ma spesso affamata nel corpo, perfettamente a conoscenza di quanto accade oltre le Alpi, esaltata dalle possibilità offerte dal futuro e dal gesto di Rutabaga quando si lecca le orecchie all’indietro; e c’è un’Italia “analogica”, convinta che il meglio sia alle spalle, che come un pugile suonato mena colpi alla rinfusa contro tutto quanto ci sia di nuovo e di diverso e che quando accende la TV o compra un giornale si ostina a far finta che siano ancora i tempi del Carosello o del Corriere dei Piccoli.

Intendiamoci: non si tratta di un problema nuovo né esclusivo del nostro Paese. In ogni società è in atto una dialettica del genere, basti pensare agli Stati Uniti che dall’insediamento di Donald Trump sono letteralmente lacerati da uno scontro inedito nei quasi 250 anni di Storia dell’Unione.
Quello che colpisce dell’Italia, tuttavia, è la completa assenza di alternative. Si tratti di politica o di un qualunque settore economico, le cose sembrano funzionare esattamente come nella fiction: l’Italia “digital” viene esclusa a priori e a dare le carte, ad essere seduta dalla parte giusta del tavolo, è sempre l’Italia analogica.

ogni idea che abbia l’ambizione di sollevare anche timidamente un dubbio, di scalfire solo superficialmente la visione del mondo del corpaccione analogico del Paese, viene scartata a priori. Sono passati oltre dieci anni da Boris: non solo tutto è rimasto uguale ma, complice la crisi economica, la situazione è persino peggiorata.

Chi lavora nell’ambiente conosce il grado di frustrazione che si prova durante una riunione con un qualunque executive attivo nella produzione di contenuti per il settore audio-visivo: ogni idea che abbia l’ambizione di sollevare anche timidamente un dubbio, di scalfire solo superficialmente la visione del mondo del corpaccione analogico del Paese, viene scartata a priori. Sono passati oltre dieci anni da Boris: non solo tutto è rimasto uguale ma, complice la crisi economica, la situazione è persino peggiorata.

Preti volenterosi, commissari burberi ma sotto-sotto con un cuore d’oro, madri-coraggio che fanno sempre la scelta giusta grazie all’aiuto del buon Dio: la fiction italiana non sa essere che questo perché un certo tipo d’Italia, che ha elevato la pigrizia a Categoria dello Spirito, non vuole che sentirsi dire questo per evitare di mettersi in discussione.

La grande narrazione internazionale, americana ed europea, prende il suo pubblico a schiaffi, lo provoca affrontando i temi più controversi proposti dalla società con storie ed anti-eroi di cui tutti conosciamo i nomi. Una parte dell’audience li rigetta: ma un’altra parte, grossa o piccola a seconda delle circostanze, grazie a quelle storie e quegli anti-eroi si interroga su sé stessa: e alla lunga la comunità evolve culturalmente.

La fiction all’italiana invece accoglie il corpaccione caldo del Paese, lo conforta come un vecchio paio di ciabatte, sussurrandogli ad ogni inquadratura che lui è e sarà sempre nel Giusto, gli angeli balleranno sempre il Rock, la mamma con la gonna un po’ lunga sarà sempre disposta a perdonarci. Dal nostro Trono di Merda non ci scalzerà mai nessuno.

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