C’eravamo tanto sbagliati. Si potrebbe riassumere così il discorso di Theresa May a Firenze. Venerdì, la premier del Regno Unito ha detto di voler continuare a operare sotto le regole del mercato unico europeo per almeno due anni dopo la fine del negoziato Brexit, prevista per il 29 marzo 2019. Per almeno quattro anni il Governo inglese continuerà a finanziare il bilancio comunitario (almeno 20 miliardi), permetterà la libertà di movimento per i lavoratori europei nel Regno Unito e rispetterà la giurisdizione della Corte di giustizia dell’Ue. Cioè i tre motivi principali per cui il 52% degli inglesi ha votato per uscire dall’Unione europea nel referendum del giugno 2016. Tutto rimarrà così com’è fino al 2021. Cinque anni dopo la vittoria del Leave. Ci sono legislature che durano meno per ridare la parola ai cittadini.
Con il discorso di Firenze May ha confermato di voler lasciare l’Ue ma allo stesso tempo di voler restare nel mercato unico. Si è usata spesso la metafora della “botte piena e moglie ubriaca”, per spiegare l’atteggiamento di Londra verso il negoziato, ma in questo caso funziona meglio quella del “gioco dell’oca”: a 16 mesi dal referendum, il Regno Unito è tornato al punto di partenza. Prima della Brexit godeva di una posizione invidiabile sotto molti punti di vista, soprattutto politico-strategici: aveva (e ha) la sterlina, questo vuol dire che la politica monetaria non era decisa dalla Bce; non era (e non è) all’interno dello spazio Schengen pur rispettandone alcuni principi come la libertà di circolazione dei lavoratori. Grazie ai suoi 65 milioni di abitanti e il suo rapporto speciale con gli Stati Uniti aveva un potere negoziale invidiabile capace di far ottenere uno sconto importante sul contributo al bilancio dell’Ue (vi ricordate il “I want my money back “ della Thatcher?) e la libertà di non accogliere i richiedenti asilo grazie alla clausola di opt-out sulla Convenzione di Dublino. Senza contare la possibilità di mettere il veto su politiche come la difesa comune europea.
Ora invece May vorrebbe tornare al punto di partenza (restare nel mercato unico), con l’obbligo di finanziare allo stesso modo Bruxelles, senza il potere di decidere sulle regole, subendole solamente. Come la Norvegia. Non certo il modo migliore di esercitare la riacquistata sovranità. Certo May ha detto di non volere un accordo come quello norvegese, né un semplice trattato di libero scambio come il Ceta tra Ue e Canada, ma un patto “creativo”. Dall’altra parte però ci sarà un blocco compatto di 27 Stati poco propenso a soluzioni originali e sarà difficile trovare una soluzione fuori da schemi prestabiliti già attuati con altri Paesi. Michel Barnier, rappresentante Ue nel negoziato, ha definito “incoraggiante” il discorso della premier inglese, anche se rimane da chiarire la posizione del Regno Unito nel negoziato. Soprattutto il confine con l’Irlanda. Come a dire: va bene la creatività ma si negozia su proposte concrete, non su discorsi vaghi di condivisione di valori e futuro.
Strano, uscire dall’Ue non era così facile, dopotutto. Ancor di più se i quattro politici che dovranno portare avanti i negoziati non hanno la stessa idea di Brexit. A partire dal ministro degli Esteri Boris Johnson che in una lettera al Telegraph aveva anticipato una settimana fa la sua visione sul negoziato, minacciando le dimissioni nel caso la posizione inglese nel negoziato fosse quella di pagare per accedere al mercato unico. L’ex sindaco di Londra durante la campagna referendaria del 2016 aveva promesso che una volta usciti dall’Ue, il Regno Unito avrebbe avuto 350milioni di sterline a settimana da investire nel decadente sistema sanitario nazionale. Un esempio strampalato, che dimostra poche conoscenze dei meccanismi europei. Lo stesso David Nogrove presidente dell’istituto nazionale di Statistica britannico ha definito l’esempio dei 350 milioni di sterline a settimana un “uso improprio dei dati statistici”. Johnson dimentica che le regioni più povere del Regno unito (e del Nord Europa) come l’ovest del Galles e l’est Yorkshire hanno ricevuto per anni aiuti pagati dagli altri Stati membri.
A sentire il discorso di May a Firenze c’erano anche altri due politici tories: il Cancelliere dello scacchiere Philip Hammond e il ministro per la Brexit David Davis. E anche loro hanno una visione diversa su come procedere con il negoziato.
Hammond vuole una Brexit che danneggi il meno possibile le imprese. Per questo da mesi ha proposto (e ottenuto) il periodo di transizione di due anni dopo la scadenza del marzo 2019. Il suo modello di Brexit è un accordo simile alla Svizzera, rimanendo cioè più vicino possibile al mercato unico. Davis invece preferirebbe anche non raggiungere un accordo pur di non subire un patto “alla norvegese”. Il suo sogno sarebbe ottenere l’accesso a un’unione doganale e allo stesso tempo negoziare con gli altri Paesi.
Quattro posizioni diverse, legate più all’ambizione politica dei leader conservatori che agli interessi del Regno unito. Forse i tories avrebbero fatto meglio a elaborare una posizione precisa e pragmatica comune nei negoziati con l’Ue, invece di pensare alla location perfetta per lanciare la loro idea di Rinascimento all’inglese.
Sono lontani i tempi di “Brexit vuol dire Brexit”, la frase con cui May inaugurò la sua leadership nel partito conservatore. Il suo atteggiamento attendista rischia di farla rimanere in mezzo al guado dove tutti sono (e saranno) scontenti del risultato finale. Soprattutto gli euroscettici come Nigel Farage, che ha definito il discorso di May un dito medio ai 17 milioni di inglesi che hanno votato per uscire dall’Ue.
È difficile prevedere cosa succederà all’economia britannica una volta uscita dall’Unione europea. Ancor di più se il governo inglese, a 16 mesi dal voto, continua a non pubblicare la sua analisi sulll’impatto della Brexit nell’economia inglese.
Un indizio l’ha dato Moody’s la scorsa settimana, declassando il rating dell’economia inglese da Aa1 ad Aa2. Secondo una delle più importanti agenzie di rating al mondo Brexit potrebbe danneggiare la crescita economica e “ci vorranno anni per concludere il negoziato, prolungando il momento d’incertezza per l’economia”. Il declassamento non è solo un cambio formale di lettere: incide sui prestiti che chiedono i governi ai mercati per finanziare le loro spese interne: rating basso vuol dire interessi sul debito più alti.
Qualcuno che conosce bene il Regno unito e la sua economia ha provato a prevedere quale sarà l’impatto della vera Brexit. Adam Posen, ex membro della Bank of England e ora direttore del Peterson Institute for International Economics il 9 agosto, durante un evento dell’American enterprise institute, ha delineato un quadro drammatico. “Il Regno unito sta subendo fin da ora uno shock negativo di approvigionamento: cioè pagherà di più per comprare gli stessi prodotti e servizi, rispetto a prima del referendum. Aumenterà l’inflazione e diminuirà il potere d’acquisto”. Uscire dall’Ue non vuol dire essere liberi di fare, ma mettere barriere all’ingresso e queste alzano sempre i prezzi a svantaggio dei consumatori.
Posen ha spiegato un concetto semplice dell’economia, condiviso dalla maggior parte degli esperti: uno Stato tende a commerciare molto di più con i Paesi vicini con cui ha sempre commerciato storicamente e meno con quelli lontani con cui ha finora poco commerciato. E non importa quanto special sia la relationship con gli Stati Uniti. Per diventare un vero leader nel mercato globale il Regno Unito dovrebbe commerciare il doppio di quanto commercia e investe già con l’Ue. Difficile crederlo. Per dire, ora “il Regno unito ha più scambi commerciali con la sola Irlanda di tutti i Bric (Brasile, Russia, Cina e India) messi insieme. E proprio perché aveva la reputazione di un Paese di lingua inglese, con poche regole, basse tasse e accesso al mercato unico era il miglior posto dove investire nell’Unione europea. Come per esempio l’industria automobolistica. Ora non sarà più così.” sostiene Posen.