Come ogni anno, puntuale come il panettone e il discorso del Presidente della Repubblica, è arrivato anche per questo 2017 il rapporto sulla lettura in Italia curato dall’Associazione Italiana Editori, che lo ha presentato a Francoforte all’apertura della Fiera più importante del settore, la Buchmesse. E quindi, cosa dirà mai questo benedetto rapporto? Le solite cose? In realtà non proprio. Come si dice nei film, c’è una notizia brutta e una notizia pessima, da quale volete cominciare?
Dai, non spariamoci subito una pallottola in fronte. Cominciamo dalla notizia brutta, ovvero dal fatto che il comunicato dell’Aie inizi con questa frase: «Il mercato del libro sembra uscire stabilmente dagli anni di recessione e punta dritto alla “ripresa”». Ora, tralasciando il mistero sulla virgolettatura di ripresa — che fino a prova contraria, in italiano, vuol dire esattamente ripresa — la notizia brutta è il dover notare ancora che, dopo circa sei anni di crisi nera, non abbiamo ancora capito che il punto di partenza per uscire dalla crisi, per far partire la “ripresa”, è prima di tutto dirsi la verità.
E qui, dicendoci la verità, arriviamo alla notizia pessima, che all’AIE hanno giustamente identificato come “il problema dei problemi”: i lettori in Italia stanno sparendo, letteralmente, e a una velocità degna di una estinzione di massa ad opera di qualche sciagura catastrofica interstellare. La percentuale dei lettori in Italia, ovvero di quelle persone sopra i 6 anni di età che hanno aperto almeno un libro nel corso dell’anno si è attestata al 40,5%.
40,5 per cento. Significa che in un tram su cui ci sono 20 persone, statisticamente solo in 8, durante i 365 giorni precedenti, hanno avuto per le mani un libro. È un numero imbarazzante, sul serio, su cui c’è bisogno di riflettere talmente tanto che sarebbe da dichiarare lo stato di emergenza, come dopo che esplodono i vulcani o le autobombe. Emergenza. Questo è il termine da usare, prima di sostituirlo, l’anno prossimo o quello dopo ancora, con il termine catastrofe.
L’esatta dimensione della debacle culturale del nostro paese la potevamo già supporre dal crollo verticale della qualità del dibattito in ogni luogo, ad ogni livello, da Facebook al parlamento, dal bar alle aule di università. L’Italia è in macerie. E quel 40 per cento di persone che ancora riescono a leggere un libro all’anno non sono un’avanguardia, sono i reduci di un paese culturalmente nuclearizzato.
Per giustificare un crollo del genere si chiama spesso in causa la tecnologia. È colpa di Facebook, ci piace dire, o dei videogiochi, o di Netflix, di Youtube. Possiamo andare avanti all’infinito con lo scaricabarile: “ero rimasto senza benzina. Avevo una gomma a terra. Non avevo i soldi per prendere il taxi. La tintoria non mi aveva portato il tight. C’era il funerale di mia madre! Era crollata la casa! C’è stato un terremoto! Una tremenda inondazione! Le cavallette! Ma giuro, non è stata colpa mia!”
Suvvia, non scherziamo. Sapete a quanto ammonta il numero dei lettori altrove? In Spagna siamo al 62 per cento. In Germania quasi 68. Negli Stati Uniti 73. In Canada 83. in Francia 84. E, ehm, in Norvegia il 90 per cento. E quasi dovunque, negli ultimi anni, queste percentuali sono cresciute.
Se esistesse uno spread oltre che nel mondo finanziario anche in quello culturale ed editoriale, il differenziale che ci separa dalle culture avanzate sarebbe quello che separa l’economia di un paese avanzato da quella di un paese sottosviluppato. Eppure non credo che in tutti questi paesi non ci sia stata la rivoluzione digitale. Mi risulta che in ognuno di questi paesi ci sia internet, che Facebook sia ben diffuso, insieme a tutti gli altri social, così come Netflix e tutte le internet tv. La verità è che siamo un paese imbrutito, regredito a livello intellettuale a una fase premoderna.