C’è una cosa, più di tutte le altre, che rende La ferrovia sotterranea di Colson Whitehead, appena pubblicato in Italia da Sur e valso all’autore il Premio Pulitzer, un libro potente come una testata all’imboccatura dello stomaco e importante come un libro di storia. È una cosa che difficilmente si trova nella nostra società, quantomeno in quella occidentale: la continenza.
In un mondo in cui i giornali fanno della violenza uno spettacolo e si rincorrono nel pubblicare foto di bambini spiaggiati o di neonati morti di fame e in cui la narrativa, letteraria, cinematografica e televisiva poco importa, la iperdrammatizza e la enfatizza, Whitehead infatti fa una cosa rivoluzionaria: lascia parlare la violenza da sola, senza didascalie, senza troppi indugi e senza retorica.
Ne La ferrovia sotterranea di violenza ce n’è ad ogni pagina, praticamente ad ogni riga. Sarebbe stato difficile d’altronde il contrario, visto che il romanzo è la storia della drammatica fuga di una giovane schiava dalla piantagione dei suoi proprietari attraverso gli Stati Uniti del primo Ottocento. La bravura di Whitehead sta proprio nel lasciare che la violenza insita in ogni cosa che racconta si faccia avanti da sola, senza iperrealistici e inutili indugi. La morte è quasi sempre questione di un momento, di una frase. E anche quando è resa lenta e terrificante dalla tortura, questa arriva al lettore in poche istantanee, quelle che bastano.
«Quando ho scritto La ferrovia sotterranea non ho pensato all’America contemporanea». Ecco il segreto, la confessione dell’autore, il trucco: non c’è nessuna volontà morale o educativa nella penna di Whitehead. C’è solo il piacere (in questo caso piuttosto doloroso) di raccontare una storia di libertà e di sofferenza, di razzismo, di eroismo e codardia, di umanità e disumanità. «Volevo semplicemente scrivere qualcosa che fosse attuale nel 2015, ma anche nel 1995, nel 1985 e così via», continua, «L’America era un paese razzista 150 anni fa e lo è tutto tuttora, quindi è ovvio che quando parli di una storia di schiavi e di razzismo negli Stati Uniti d’America, anche si stratta di una storia che appartiene a un mondo scomparso da 150 anni, la prima cosa che ti viene in mente è l’America di Trump. Ma non scrivo libri per mandare messaggi, nemmeno in questo caso».
Qui in Italia il libro sta andando molto bene, è finito in classifica e sta piacendo molto ai giovani. Che effetto ti fa?
Non credo che sia il ruolo della letteratura educare la gente sulla storia e sul razzismo. Però anche io ho notato che il pubblico si affeziona moltissimo a Cora, e se questo serve come leva per far cambiare idea a qualcuno o semplicemente per far riflettere su un tema così importante, be’, non posso che esserne felice. Se provi empatia per dei personaggi, se riesci a uscire per un attimo dalla tua vita quotidiana e se sei in grado di metterti nei panni degli altri — tutte cose che la letteratura fa — allora certamente qualcosa la narrativa può fare. Eppure non credo che la letteratura abbia ancora così tanta importanza nella società, non ha più questo ruolo da un po’. Certo, anche se riuscisse a cambiare una persona alla volta sarebbe già un risultato.
Da quando Trump è diventato presidente l’America l’anima razzista dell’America si è risvegliata, dov’era ai tempi di Obama?
Il tema del razzismo in America non è grave e rilevante da quando c’è Trump. Era ugualmente grave e ugualmente rilevante anche durante la presidenza di Obama. L’unica cosa che è cambiata, forse, è che i razzisti americani oggi non si vergognano di scendere in strada, perché Trump in qualche modo ne ha sdoganato i discorsi e li ha dato energia.
Mi ha molto colpito il modo in cui tratti la violenza, senza darle enfasi o ingigantirla come ormai si fa in quasi ogni tipo di narrazione, da quella giornalistica a quella cinematografica, come mai questa scelta?
In un mio libro precedente, Zone one, quello sugli zombie, ho trattato la violenza in maniera più cruda e più convenzionale. Per quanto riguarda invece una storia come questa ho pensato semplicemente che non fosse necessario rendere ancora più drammatiche o emotive le scene di violenza. Parlano da sole, non c’è bisogno di caricarle di ulteriore drammaticità. È stata una scelta che ha seguito anche lo stile e il realismo dei racconti e delle testimonianze che leggevo. Ma se mi fossi limitato a raccontare realisticamente la situazione degli schiavi d’America nell’Ottocento non sarei riuscito a instaurare un dialogo proficuo con la Storia. Mettere invece un elemento fantastico e surreale come la ferrovia sotterranea ha permesso al libro di essere qualcosa di più di un libro di storia.
Quando si scrive la Storia la cosa più importante sono le fonti. Quali sono stati le tue per costruire questo romanzo e i suoi protagonisti?
Non amo stare in casa, quindi passo molto tempo in biblioteca ed è proprio tra biblioteche e archivi digitali che mi sono mosso per trovare le fonti, le testimonianze dirette di quello che volevo raccontare. Ci sono molti racconti in prima persona fatti da ex schiavi. Negli anni Trenta, negli Stati Uniti, per far lavorare un po’ di scrittori altrimenti disoccupati li pagavano per intervistare ex schiavi, gente che era bambina ai tempi della guerra civile, salvaguardando così il ricordo di quegli anni prima che morissero i testimoni diretti. Questi racconti sono stiati preziosissimi, sono pieni di dettagli sulla loro vita da schiavi, sul loro lavoro, sulle loro speranze di fuga. C’è tantissimo materiale, ed è ovviamente preziosissimo per un narratore.
Da dove ti è venuta l’idea di fare della ferrovia sotterranea, che in realtà era solo il nome di una rete clandestina che aiutava gli schiavi, in una vera e propria ferrovia?
Quando ero piccolo, come molti bambini, anche io ascoltavo le storie sulla mitica ferrovia sotterranea e, probabilmente com tutti gli altri bambini, me la immaginavo come una vera ferrovia e non come un semplice nome attribuito alla rete che aiutava gli schiavi a liberarsi. Prima di mettermi a scrivere avevo in mente quello, non personaggi specifici, e nemmeno un plot. Volevo semplicemente trasformare il mio immaginario di bambino in realtà. Solo dopo sono venuti i personaggi, prima di tutto Cora.
Come è nato il personaggio di Cora?
Nel 2015, quando stavo scrivendo, avevo bisogno di un personaggio che aveva il coraggio di affrontare una fuga disperata, affrontando pericoli e disavventure di ogni tipo, e che in qualche modo incarnasse la speranza. Su questa basi è nato il personaggio di Cora. Ci sono due momenti che la definiscono perfettamente secondo me, momenti che mi sono serviti come guida: il primo è quando affronta Blake e si riprende l’orticello che era stato di sua mamma; il secondo è quando durante una corsa alla tenuta dei Randall difende Chester, che è solo un bambino. Di ingiustizie, di torture e di violenze ne vedrà tante nel corso della sua avventura, ma credo che siano proprio queste due quelle fondative, che ne segnano il carattere per tutto il resto del libro.
La violenza e il razzismo dell’America dell’Ottocento purtroppo non sono affatto un ricordo lontano in Occidente e nemmeno il pacifismo del secondo dopoguerra ha cambiato di molto le cose. Quanto dobbiamo essere preoccupati dall’ascesa di populismo, nazionalismo e razzismo?
Tutti i popoli del mondo siano violenti, purtroppo è nella natura dell’uomo. Non sono soltanto i bianchi, gli europei o gli occidentali. Tutti gli uomini amano la violenza e tendono a volere quello che non è loro. Amiamo dominare sugli altri, sulle altre culture, sulle altre nazioni, persino sulle altre città qualche volta. Questa cosa temo che non ne se ne andrà mai, è solo lì in attesa di essere espressa.
Viaggi in mare pericolosissimi, razzismo, violenza, non di rado sfruttamento: le storie di molti rifugiati di questi anni hanno qualcosa in comune con quelle degli schiavi in America? La storia ci giudicherà alla stregua di chi non si opponeva alla schiavitù?
Credo che essere rapiti in Africa ed essere trasportati a forza in un altro continente non sia paragonabile alle esperienze, seppur drammatiche e devastanti, di chi attraversa il Mediterraneo in questi anni per scappare da persecuzioni politiche e religiose. Certamente però ci sono degli elementi comuni alla vita degli schiavi d’America: la fuga, il perdere tutto dietro di sé, il tentativo di ricostruirsi una vita, il dover affrontare i pregiudizi razzisti della gente. Se mi chiedi come giudicherà la storia il dolore e la sofferenza che stiamo causando a questa gente non saprei cosa rispondere: dipende da come andrà a finire, nel bene e nel male.