Il bitcoin non è il diavolo e la blockchain, la tecnologia sottostante alle criptovalute, finirà probabilmente per rivoluzionare i nostri rapporti commerciali in moltissimi campi. Il suo “libro mastro diffuso”, che tiene conto di tutte le transazioni che riguardano un bene o un servizio, potrebbe presto portare all’eliminazione di molti intermediari che oggi appaiono indispensabili, dai notai alle camere di commercio, con beneficio per le tasche di consumatori e aziende.
Detto tutto questo, oggi il bitcoin sta dando molti motivi di preoccupazione, per almeno due motivi. Perché il suo prezzo è alle stelle, ha raggiunto gli 8mila dollari, il 1500% in più di 18 mesi fa, pur avendo avuto una serie di ostacoli che avrebbero potuto azzopparlo. E perché le dinamiche di prezzo ricordano da vicino quelle di bolle speculative già scoppiate in passato. C’è inoltre un terzo fronte che va guardato con attenzione, quello delle Ico, le offerte iniziali di moneta, delle forme di crowdfunding che per la mancanza di garanzie per gli investitori sollevano dubbi e richieste di regolamentazione anche da parte di chi ha sui bitcoin uno sguardo tutt’altro che malevolo.
Il bitcoin, come noto, è una criptovaluta o moneta virtuale. Ideata nel 2008 da una persona o un gruppo di persone che si nascondono dietro lo pseudonimo di Satoshi Nakamoto, nasce con l‘obiettivo di permettere il pagamento p2p (peer-to-peer) tra persone senza passare da intermediari finanziari. Nasce in opposizione al sistema finanziario ed è per costituzione cross-nazionale, estraneo a logiche di regole e controlli nazionali. Il controllo viene dal sistema di blockchain, un registro virtuale diffuso tra miriadi di computer in tutto il mondo che tiene conto di tutti gli scambi di ogni singolo bitcoin. Proprio per la replicazione in rete di queste informazioni è considerato difficilissimo hackerare i sistemi e alterare le informazioni. Un sistema di chiavi digitali fa sì che solo il proprietario di un bitcoin possa spenderlo. Il modo attraverso cui gli ideatori del sistema hanno permesso che i bitcoin avessero un valore è quello di attribuire un numero massimo di bitcoin prodotti, pari a 21 milioni. Ciascuno di loro si ottiene tramite un sistema di calcoli che, in base a quanto previsto dall’algoritmo iniziale, si fanno più complicati man mano che il numero di quelli già creati aumenta. Se all’inizio ai “minatori” – coloro che ottengono i bitcoin – bastava un normale pc di casa, oggi che siamo arrivati a circa 15 milioni di monete virtuali prodotte sono necessarie macchine molto potenti e dispendiose di energia, attive per lo più in Cina. Alla creazione di ogni blocco inizialmente si ottenevano 50 bitcoin, dal 2012 25 e ogni quattro anni la cifra si dimezza. Si prevede che il 21milionesimo bitcoin sarà estratto nel 2044. Tuttavia il sistema, nato con l’esigenza soprattutto di garantire la sicurezza, ha cominciato a mostrare forti limiti tecnici. Per superarli negli anni sono nate diverse altre monete virutali. La più nota è l’Ether, moneta del sistema Ethereum, una piattaforma che consente di creare contratti intelligenti (smart contracts) che possono essere utilizzati per eseguire varie operazioni, dai sistemi elettorali alla tutela della proprietà intellettuale.
Il bitcoin non è il diavolo ma oggi sta dando vari motivi di preoccupazione: il suo prezzo è alle stelle pur avendo avuto una serie di ostacoli che si immaginava l’avrebbero azzoppato. Le dinamiche di prezzo ricordano da vicino quelle di bolle speculative. Mentre Ico, le offerte iniziali di moneta, per la mancanza di garanzie per gli investitori sollevano forti dubbi
Lo scisma del bitcoin cash
I limiti dei bitcoin sono anche di efficienza. Ogni transazione richieda attualmente almeno dieci minuti di tempo, contro i pochi secondi necessari per pagarei con le carte di credito. In alcuni casi possono passare ore e si è diffusa la pratica di pagare di più per avere più velocità. In tutti i casi, la tecnologia storica non è considerata utilizzabile negli scambi di tutti i giorni. A causa di questi limiti tecnici si è scatenata da tempo una discussione interna al movimento dei bitcoin. La comunità, che vota a maggioranza assoluta dei minatori (i voti sono proporzionali all’ammontare della potenza computazionel che aggiungono al network) i mutamenti tecnici, si è convinta che fosse necessario incrementare le dimensioni di ciascun blocco, che fu fissato a un megabyte per rendere difficili gli attacchi di hacker. Dallo scorso agosto si è incominciato a implementare sui computer del network il nuovo formato per le transazioni chiamato Segregated Witness, o SegWit, che, attraverso un cambio di codice, porta la capienza di ciascun blocco da 1 a circa 1,8 megabyte; è un tipo di “soft fork”. Nel frattempo, però, era avvenuto uno scisma, o “hard fork”. Da alcuni minatori è stato creato un nuovo bitcoin, chiamato bitcoin cash, che conta su una capienza ancora superiore, pari a 8 mega per blocco.
Quello che stupisce gli osservatori esterni alle logiche del bitcoin è che in questo caso chiunque possedesse un bitcoin si è ritrovato con un bitcoin tradizionale e un bitcoin cash. Questa seconda moneta è partita con un valore basso e si è apprezzata nel giro di poco tempo fino ad arrivare all’attuale valore di circa 1.500 dollari. Ma anche il bitcoin tradizionale non ha risentito del fatto che ci sia stato un aumento delle valute a disposizione dei possessori. In un mondo tradizionale la reazione sarebbe stata ben diversa. Se da un giorno all’altro l’oro a disposizione a livello globale dovesse aumentare di molto, il suo valore crollerebbe. E lo stesso avverrebbe se una banca centrale si mettesse a stampare moneta in enormi quantità, come è avvenuto negli anni scorsi in Zimbabwe. Invece dopo il “fork” c’è stata una corsa sempre più forsennata fino alle quote “himalayane” degli 8mila attuali.
È un segno dell’irrazionalità che sta caratterizzando il prezzo del bitcoin? «Certamente nelle politiche monetarie a cui siamo abituati l‘effetto sarebbe stata una caduta del valore. Tuttavia il bitcoin non segue le leggi monetarie a cui siamo abituati – risponde Valeria Portale, responsabile Blockchain & Distributed Ledger degli Osservatori Digital Innovation del Politecnico di Milano -. Dietro le monete fiat (cioè quelle tradizionali, ndr) ci sono convenzioni e politiche monetarie governate dalle banche centrali che attribuiscono valore alle valute. Invece il bitcoin scardina totalmente questo concetto. Le monete alternative non hanno una convenzione o un corrispettivo sottostante. Non hanno nemmeno un oro a cui sono legate, è per alcuni come se fossero esse stesse l’oro. Il valore deriva dal fatto che ci sia un mercato con domanda e offerta».
Brian Armstrong, fondatore e Ceo di Coinbase, una importante piattaforma di scambio di criptovalute, ha tenuto a ribadire che questi scismi vanno visti in modo positivo. «Se siete in favore della decentralizzazione, dovreste essere a favore delle “hard fork” nei bitcoin – ha scritto in un post su Coinbase Blog -. Sono il migliore meccanismo che abbiamo per assicurare i bitcoin continuino a evolvere e che non possano essere controllati o caricati da nessun gruppo unico». La creazione di nuove monete attraverso “hard forks”, continua, dovrebbe essere vista come la possibilità di scegliere tra più prodotti, come in quale “ristorante italiano in città” andare a mangiare.
Un’altra circostanza che avrebbe potuto abbattere il valore e non l’ha fatto è il divieto di scambiare bitcoin su piattaforme pubbliche introdotto in Cina a settembre, dopo un lungo periodo di apertura, o quanto meno di osservazione, del sistema di criptovalute. È stata una mossa voluta da Pechino per controllare i rischi finanziari ed evitare fughe di capitali. Non è certo stata casuale la data, un mese prima del XIX Congresso del Partito comunista cinese. Il presidente Xi Jinping, che ha connotato l’inizio del secondo quinquennio di potere all’insegna di un potere mai così accentrato, ha voluto dare un’impressione di controllo ed evitare accuse di esporre il Paese a nuove bolle speculative come quella del 2015. In Cina era scambiato il 90% dei bitcoin in circolazione. Eppure non ci sono state conseguenze se non temporanee sul prezzo. Pur essendo il traffico diminuito, ha fatto notare il Financial Times, le transazioni “over-the-counter”, permesse, sono continuate, attraverso messaggi privati su piattaforme come Telegram. Come è stato fatto notare, la resistenza del bitcoin a questa stretta può essere vista come una forza della moneta e della sua cross-nazionalità.
Un’altra circostanza che avrebbe potuto abbattere il valore e non l’ha fatto è il divieto di scambiare bitcoin su piattaforme pubbliche introdotto in Cina a settembre. In Cina era scambiato il 90% dei bitcoin in circolazione. Eppure non ci sono state conseguenze se non temporanee sul prezzo
Come una bolla
Eppure molti non sono convinti di questa forza. Proprio l’assenza di un corrispettivo sottostante preoccupa molti analisti e investitori. Uno su tutti è Warren Buffet, che è stato chiaro: «Le criptovalute, come il bitcoin, non sono investimenti tangibili. Non puoi stabilire il valore di un bitcoin perché non è un bene che produce valore. Si dice anche che ci sia una quantità limitata di bitcoin, anche se non sappiamo ancora molto di come sia stato creato o del suo misterioso creatore. E tutto questo è un po’ preoccupante» (la citazione è ripresa da Risparmiamocelo.it).
Secondo alcuni la dinamica del prezzo del bitcoin ricorda da vicinissimo quella di altre bolle speculative del passato: si perde il rapporto tra prezzo e valore intrinseco del bene e lo si acquista solo perché ci si aspetta che il prezzo cresca ancora. È un meccanismo che si inceppa quando un evento provoca una brusca caduta del prezzo. A quel punto chi possiede il bene tenta di venderlo il prima possibile e questo determina un crollo.
Succederà così con i bitcoin? «Io mi aspetto che la crescita continui per un certo periodo e che in seguito ci sia un assestamento, con forti oscillazioni», commenta Valeria Portale. È possibile in ogni caso distinguere tra la dinamica attuale dei prezzi, che lascia presagire lo scoppio della bolla, e il futuro del bitcoin come mezzo di scambio. È forse in questa prospettiva che va letta l’apparente contraddizione interna a JPMorgan Chase. Il suo numero uno, Jamie Dimon, ha detto che chi compra i bitcoin è uno “stupido” e ne pagherà il prezzo. Tuttavia poco dopo una nota della società dichiarava che l’istito è “open minded” riguardo agli potenziali delle criptovalute e che sta testando il modo in cui la blockchain possa aiutare la banca a interagire con i clienti. I giudizi tranchant non sono comunque mancanti: Neil Dwane di Allianz Global Investors ha detto che si tratta di una «truffa per criminali in tutto il mondo» e Larry Fink di BlackRock Inc. ha detto che è un indice per valutare la domanda di riciclaggio di denaro in tutto il mondo.
«Io mi aspetto che la crescita continui per un certo periodo e che in seguito ci sia un assestamento, con forti oscillazioni»
Ico, offerte senza garanzie
Molta diffidenza stanno incontrando le Ico, le offerte iniziali di moneta, un altro fenomeno che si è affermato in maniera esplosiva nel 2017. Le Ico sono una nuova tipologia di crowdfunding, ossia di raccolta di fondi da parte di una startup. Si basano su uno scambio: gli investitori versano delle monete virtuali, in genere bitcoin, e in cambio ottengono dei token, cioè delle monete virtuali di nuova emissione. Negli ultimi 12 mesi è stato raccolto tramite le Ico l’equivalente di 3,3 miliardi di dollari, nell’anno precedente ci si era fermati a 70 milioni di dollari. Il valore di queste monete si dovrebbe rafforzare grazie al fatto che vengono scambiate all’interno di un network. Un caso di successo esemplare è quello dell’Ethereum, la criptovaluta alternativa ai bitcoin più diffusa.
Ma ci sono anche casi molto più problematici, che accadono quando non c’è un progetto concreto dietro all’emissione di nuova valuta. «In uno dei casi più paradossali, il soggetto che ha promosso l’Ico si è limitato a dire che avrebbe usato i soldi raccolti per farsi gli affari propri e ha comunque raccolto l’equivalente in bitcoin di 80mila dollari», commenta Valeria Portale.
Anche la docente del Politecnico non nasconde le perplessità rispetto a queste modalità di raccolta di capitali. Il punto critico è che non esiste un modo per sapere se i progetti proposti siano validi. «L’unico riferimento sono i “white paper” che raccontano il progetto, ma non c’è modo di verificarne la validità. Chi è in grado di guardare un algoritmo e giudicarlo?», si chiede la docente.
È questa la grande differenza rispetto alle Ipo tradizionali, ossia l’offerta pubblica di acquisto che precede la quotazione in Borsa. Nel mondo reale, pur con i difetti e le carenze del caso, c’è un processo laborioso che prevede delle figure di garanzia. Nel mondo delle Ico no. È per questo motivo che diversi regolatori nazionali si sono mossi per vietarle. Ha già iniziato la Cina ed è stata seguita da un Paese democratico, la Corea del Sud. Allo studio sono ci però regolazioni e restrizioni anche in altri Paesi, come gli Stati Uniti (dove la Sec ha detto che le Ico dovrebbero essere assimilate alle emissioni di titoli), il Canada e perfino la Svizzera, fin qui uno dei Paesi più permissivi.
In Italia abbiamo imparato a nostre spese a riconoscere le gravi lacune di una vigilanza di Banca d’Italia e Consob che non hanno impedito gli aumenti di capitale attraverso le operazioni baciate (prestiti concessi in cambio di acquisto di azioni) a Vicenza come a Montebelluna; operazioni che hanno portato all’azzeramento dei risparmi di piccoli investitori non adeguatamente informati. Per questo motivo in molti salutano con speranza l’arrivo delle tutele per i risparmiatori previste dalla Mifid 2. Dovremmo essere vaccinati verso le promesse di chi promette grandi guadagni senza trasparenza. O almeno si spera.