Rispetto alle banche italiane abbiamo imparato che purtroppo a pensare male non si sbaglia quasi mai. Dopo il dissanguamento di soldi pubblici, lo scorso giugno, per salvare Veneto Banca e Banca Popolare di Vicenza e metterle in mano a Intesa Sanpaolo, la lotta con la Commissione europea, le promesse del ministro dell’Economia Pier Carlo Padoan che il sistema bancario fosse stato messo in sicurezza, Carige compresa, siamo a rivivere un déjà vu.
Ora è il momento della Carige: nella notte tra il 15 e il 16 novembre le tre banche del consorzio di pre-garanzia (Deutsche Bank, Credit Suisse e Barclays) si sono ritirate dal ruolo di garanti, asserendo di non aver trovato sufficiente interesse da parte degli investitori internazionali a cui l’aumento di capitale da 560 milioni di euro era stato proposto. Come nel caso delle due banche venete e poi di Mps, i consorzi di pre-garanzia si squagliano al sole e si ritirano, mettendo a nudo i problemi e generando un allarme rosso per tutto il settore bancario italiano. E, a cascata, su un governo italiano che dalla crisi bancaria continua a uscire fuori danneggiato, al di là delle responsabilità sulle singole vicende. Attualmente la via stretta che l’istituto può percorrere passa dal primo azionista e vicepresidente, Vittorio Malacalza, che nel tardo pomeriggio del 16 novembre ha reso nota la sua intenzione di salire fino al 28% del capitale, con un aggravio di circa 90 milioni rispetto all’impegno preso fino al giorno prima. Ma i tempi sono stretti, perché l’impegno preso con la Bce è che la ricapitalizzazione vada in porto entro il 31 dicembre prossimo.
Che Carige fosse in crisi lo si sa da molto tempo, ha attraversato la gestione ventennale di Giovanni Berneschi, finita con la condanna a otto anni per aver truffato le assicurazioni del gruppo, nel febbraio 2017. Prima, dal 2015, c’è l’arrivo della famiglia Malacalza come socio di riferimento (con investimento fin qui di oltre 250 milioni di euro), il cambio burrascoso di due amministratori delegati (il primo dei quali oggetto di un’azione di responsabilità assieme al presidente coevo), piani industriali che sono finiti per essere clamorosamente smentiti. E un lungo braccio di ferro con la Bce che ha portato alla richiesta di un aumento di capitale da 560 milioni di euro, oltre a dismissioni di immobili e a un’operazione di conversione dei bond subordinati. Tutte le vicende, giudiziarie e societarie, sono state ben descritte in un recente libro-inchiesta a firma della giornalista Carlotta Scozzari.
Quella di Carige è apparsa una situazione molto critica ma in bilico. Ancora il primo novembre in un articolo del Sole 24 Ore si parlava di una clima generale intorno alle banche e a Carige in particolare «non dei peggiori». A Linkiesta un investitore esposto nella banca genovese racconta che fino a qualche settimana fa il clima era di cauto ottimismo. C’era la consapevolezza della bassissima redditività della banca e del fatto che sarebbe stato inevitabile cercare di aggregarsi a un gruppo più solido. Non ci sono infatti grandi prospettive per banche regionali del territorio nello scenario che si trovano davanti gli istituti di credito: margini di intermediazione quasi azzerati – anche per via dei tassi Bce bassi – e Roe ridotti al lumicino, tenuti in piedi solo da ricavi di commissioni.
Il sistema bancario italiano vive un altro déjà vu. Ancora una volta c’è lo spettro di una risoluzione, di un braccio di ferro con la Commissione europea e di un dilemma: salvare gli obbligazionisti o i contribuenti. Se il rialzo dei Malacalza non cambierà le sorti dell’aumento, si apre il rischio di un effetto domino su Creval e di una valanga diretta verso il governo
Ma la manovra richiesta della Bce, che si fondava su tre pilastri (sebbene non certo di solido marmo) di intervento, stava in qualche modo proseguendo. Il primo dei filoni era la vendita degli immobili, un’operazione che aveva avuto una svolta dopo la vendita della sede di Milano, per 107.5 milioni di euro. Tra le vendite c’erano anche due piattaforme, tra cui quella per la vendita dei venditi deteriorati. Il secondo pilastro riguardava la conversione di una tipologia di bond subordinati, la cosiddetta Lme. Non una conversione in azioni ma in bond senior, ossia più sicuri, da realizzarsi con un forte sconto rispetto al valore originario (giustificato dalla protezione in caso di un bail-in che a recuperare capitale dalle azioni e poi dai bond subordinati, tenendo per terzi i bond senior e per quarti i depositi sopra i 100mila euro). Il differenziale ottenuto da questa conversione sarebbe stato usato dalla banca per accrescere il capitale. Dalle informazioni trapelate negli scorsi giorni, è emerso che tale operazione ha pure avuto successo, con l’adesione di soggetti come Generali, Intesa Sanpaolo e soprattutto UnipolSai, destinata secondo molti a sottoscrivere anche una parte dell’aumento di capitale. La terza parte era proprio l’aumento di capitale. C’era però un problema: se non si fosse concretizzato quest’ultimo pilastro, sarebbe crollato anche il secondo. Un castello di carta, insomma.
È proprio quello che sta accadendo. A determinare la ritirata degli investitori, nonostante un prezzo che più scontato non si potrebbe, pari a 1 centesimo per azione, sono stati più fattori. In primo luogo ci sono i problemi intrinseci di Carige. L’aumento di capitale richiesto era pari a quasi quattro volte il valore della capitalizzazione di borsa della banca, ulteriormente assottigliatosi negli ultimi giorni prima del 16 novembre, fino a scendere sotto i 130 milioni di euro (la capitalizzazione nel 2006 era di 4,5 miliardi). L’ammontare degli Npl, nonostante delle dismissioni (938 milioni nella prima parte del 2017) che hanno visto il ricorso alle Gacs, le garanzie pubbliche sulla vendita di crediti deteriorati, è continuato a essere altissimo: le sofferenze sono ancora pari a 3 miliardi (1 miliardo netto, dato che la copertura è al 67%), pari al 15% degli impieghi, una percentuale che raddoppia se si contano anche le inadempienze probabili.
Ma soprattutto ci sono i grandi problemi di redditività che hanno contraddistinto la banca. Un post di Fabio Bolognini, su Linkerblog ha messo a confronto tutti gli ultimi piani industriali con i risultati effettivamente ottenuti. Il confronto sulle rettifiche dei crediti, ma anche dei costi e dei ricavi, è impietoso. A differenza di altre banche che i piani non li hanno rispettati (una su tutte la Creval, si vedano le previsioni al 2016 e i risultati ottenuti), il management di Carige è cambiato. Ma non è cambiata la musica. Nei primi nove mesi del 2017 la perdita è stata di 210,4 milioni, poco meglio dei 223 dell’anno scorso, anche se pesano per 107 milioni accantonamenti e svalutazioni dopo la vendita delle sofferenze.
Carige ha venduto sofferenze per quasi un miliardo nel 2017 ma ne ha in pancia ancora tre miliardi, il 15% degli impieghi. Ma soprattutto continua ad avere un problema di redditività. Tutti i piani industriali sono stati smentiti
Nonostante tutto questo, si diceva, fino a qualche settimana fa il clima veniva descritto di cauto ottimismo. Cos’è cambiato? In molti evocano l’addendum alle linee guida della Bce sui crediti deteriorati. Presentato il 4 ottobre dalla Vigilanza bancaria della stessa Bce guidata da Danièle Nouy, è stato contestato nel merito dal governo italiano e nel metodo dal presidente del Parlamento europeo Antonio Tajani. Le proposte sono sintetizzabili in sette anni indicati alle banche come termine per svalutare gli Npl garantiti da immobili e due anni per gli Npl unsecured, con la possibilità da parte delle banche devianti di spiegare la deviazione, hanno fatto aumentare il nervosismo degli investitori sulla solidità del sistema bancario italiano.
Una seconda mina è stata la richiesta di aumento di capitale di Creval (Credito Valtellinese), pari a 700 milioni, 3,5 volte la capitalizzazione della banca e superiore alle aspettative. Dal giorno dell’annuncio i timori degli investitori, già manifestatisi, si sono acutizzati.
Cosa succederà adesso? Gli scenari non sono ancora stati scolpiti su pietra. Quello più positivo è che Carige riesca a trovare sul mercato le risorse per l‘aumento di capitale. Vittorio Malacalza ha annunciato l’intenzione di salire dall’attuale 17% al 28% del capitale, operazione che comporterebbe un esborso di circa 170 milioni di euro invece degli 88 che avrebbe comportato il mantenimento della quota precedente. Salendo l‘imprenditore sopra il 20% l’operazione è condizionata all’approvazione della Bce, alla quale la richiesta è stata mandata lo scorso 26 ottobre. Un secondo scenario, ancora quasi di mercato, comporterebbe l’intervento del Fondo interbancario di tutela dei depositi. Ossia del fondo delle banche che, dopo i rilievi della Bce degli anni scorsi, è stato reso “volontario”. È stato utilizzato anche nei mesi scorsi, per una cifra pari a 510 milioni di euro, per supportare l’acquisizione da parte di Cariparma-Crédit Agricole di tre banche locali (casse di risparmio di Cesena, Rimini e San Miniato). Bisogna però vedere se un sistema bancario sfibrato da bassa redditività, dalla prospettiva di costi maggiori e minori ricavi da commissioni che potrebbero arrivare dall’applicazione della direttiva Mifid II e dal dissanguamento del fondo Atlante (intervenuto nelle banche venete per oltre 2 miliardi di euro) sia disposto a farsi carico anche di questa operazione.
Potrebbe essere risolutiva la salita di Malacalza. O potrebbero intervenire le altre banche con il fondo volontario di tutela dei depositi. Ma attenzione, non è esclusa la risoluzione con bail-in
Gli altri scenari sono quelli che abbiamo imparato a conoscere negli anni (per i dettagli si veda l’analisi di Finanza Report). Sono la risoluzione, con conseguente bail-in, che potrebbe limitarsi all’azzeramento di azionisti e obbligazionisti subordinati o estendersi a obbligazionisti senior o correntisti sopra i 100 mila euro (a seconda che si raggiunga il livello di copertura dell’8% del passivo). Oppure la ricapitalizzazione precauzionale da parte dello Stato, con azzeramento degli azionisti e conversione delle obbligazioni subordinate in azioni, come è avvenuto nel caso di Mps (ma in questo caso è molto difficile convincere la Bce che l’istituto potrebbe stare in piedi da solo e sia da considerare “sistemico”). Oppure ancora una soluzione “alla veneta”, con una liquidazione coatta amministrativa che permetta la creazione di una bad bank su cui caricare gli Npl e una good bank ripulita da affidare a un istituto di credito, al quale arriverebbero anche dei soldi per mantenere i coefficienti patrimoniali inalterati e per permettere la gestione degli esuberi, oltre alla garanzia di potersi disfare entro alcuni anni dei crediti in bonis che si rivelassero in sofferenza. Così è avvenuto per il passaggio a Intesa Sanpaolo di Veneto Banca e Popolare di Vicenza. Ora si fa già il nome di Unicredit, l’altra grande banca italiana, che pure è reduce da un aumento di capitale monstre supportato da un piano industriale che sarebbe inevitabilmente stravolto da un ingresso di Carige.
Sull’ultima ipotesi, però, è lecito avere dubbi, perché il vento alla Bce da giugno è cambiato e difficilmente una strada che era stata fatta passare come uno strappo per porre fine all’emergenza italiana sarebbe nuovamente accettata. Per avere un’idea del clima vale la pena di leggere uno degli ultimi post del blog Pane e Finanza del professor Luca Erzegovesi. I segnali lanciati da Nouy e da Sabine Lautenschläger, vicepresidente del Consiglio di vigilanza della Bce, non riguardano solo i tempi per la svalutazione delle sofferenze; contengono diverse richieste di “armonizzazione” delle regole, allo scopo di non assistere ad altre interpretazioni elastiche. A livello politico è inoltre facile immaginare che la prossima coalizione Giamaca che sta per partire in Germania non faccia sconti (le posizioni riguardo alle questioni europee sono oggetto di dettagliate trattative tra i tre partiti della nuova maggioranza).
In attesa di conoscere l’esito dell’operazione, due conseguenze sono immaginabili in caso di fallimento della nuova mossa di Malacalza. Una è, sul piano finanziario, la criticità ancora più forte che si troverà di fronte il Creval nella sua operazione di aumento di capitale. Si tratta di un effetto domino che si spera non si estenda oltre la Valtellina.
Una seconda conseguenza è tutta politica. Le rassicurazioni fornite a giugno dal ministro dell’Economia e finanze Pier Carlo Padoan stanno già divenendo oggetto di critiche e facilmente lo diventeranno di campagna elettorale. Ma anche la posizione di Matteo Renzi di smarcare la propria immagine dalle responsabilità bancarie rischia di rivelarsi illusoria, nel momento in cui i contribuenti dovessero trovarsi di fronte a un nuovo salvataggio oppure (ma una cosa non esclude del tutto l’altra) gli obbligazionisti dovessero ritrovarsi a perdere tutto il loro investimento. A pochi mesi dalle elezioni, se non ci fosse una soluzione interna tutto il danno di immagine sarebbe per l’esecutivo.