Dolores O’Riordan, la voce della verità del decennio che rifiutava la verità

È morta ieri la cantante dei Cranberries. Scrisse “Zombie” in venti minuti raccontando non solo l'Irlanda, ma tutta quell'Europa che negli anni Novanta veniva pervasa da un profondo, triste ed esausto desiderio di morte

Gli anni Novanta ci mancano moltissimo e non c’è modo di ragionare su questa nostalgia un po’ isterica, moltissimo patetica (come tutte le nostalgie) e incredibilmente agglutinante. Ieri è morta Dolores O’Riordan che nel 1990, a diciannove anni, entrò nei Cranberries e nel 1994, a ventitré, in venti minuti, scrisse Zombie, che diventò singolo di No Need To Argue, secondo disco in studio della band, e canzone dell’anno agli MTV Europe Music Awards del 1995. Il 20 marzo del 1993, a Warrington, Inghilterra, l’IRA fece esplodere due ordigni (rudimentali: piuttosto inconsueto per l’IRA) nel centro della città. Il primo a morire fu un bambino di quattro anni. «È una sfida alla civiltà umana», disse l’allora primo ministro, Sir John Roy Major. Ci fu un numero impressionante di feriti. A quel bambino, Dolores O’Riordan dedicò Zombie ed è quello che diceva tutte le volte che le chiedevano il significato di quella canzone, della sua posizione politica, di chi condannasse, dell’Irlanda del Nord (essendo lei irlandese), del terrorismo: «non riguarda veramente l’Irlanda del Nord. Riguarda un bambino che è morto per colpa della situazione dell’Irlanda del Nord».

Di quella situazione e molte altre polveriere e catastrofi degli anni Novanta, di cui oggi ci sentiamo orfani inconsolabili, Dolores O’ Riordan presentò il conto. Non che non lo sapessimo, che nelle guerre muoiono i bambini. Ma lei lo cantò con quella voce che a volte, molti anni dopo, le abbiamo rimproverato perché risultava fastidiosa. Certo che lo era: era la voce di Zombie, la voce che ci aveva detto che stavano ammazzando i bambini e ce lo aveva detto in mezzo al decennio delle guerre intorno a noi, eppure lontanissime, che abbiamo incredibilmente dimenticato, crescendo, e che abbiamo spaventosamente tenuto distanti, mentre succedevano. Perché gli anni Novanta rendevano possibile soprattutto questo ed è forse una delle ragioni per cui li rivorremmo indietro: ci illudevano che guardare la realtà solo dal lato che preferivamo non avesse conseguenze e si vede perfettamente nella selezione strettissima di ciò che, di quel decennio, oggi, scegliamo di ricordare e celebrare.

Avevamo le idee confuse e non ci curavamo di riordinarle: credevamo che saremmo stati al sicuro per sempre. Nel 1992, Francis Fukuyama scrisse della “fine della storia”, l’ipotesi di un ingresso dell’umanità – a partire dalla fine del XX secolo – in una fase statica e pacifica, dove non sarebbe più stato necessario combattere. Dolores O’Riordan è stata, con Zombie, la sirena che allertava: che accidenti dite, vi state illudendo, guardate che vi muoiono bambini intorno e voi dormite in piedi, morite in piedi, siete zombie e il problema sono innanzitutto le vostre teste e quello a cui decidete di pensare e il modo balordo in cui lo fate – “with their tanks and their bombs and their bombs and their guns in your head, in your head, they are dying“.

Gli anni Novanta rendevano possibile soprattutto questo ed è forse una delle ragioni per cui li rivorremmo indietro: ci illudevano che guardare la realtà solo dal lato che preferivamo non avesse conseguenze e si vede perfettamente nella selezione strettissima di ciò che, di quel decennio, oggi, scegliamo di ricordare e celebrare

Lo scorso novembre, il tribunale dell’Aja ha condannato l’ex generale serbo Ratko Mladić per genocidio e crimini di guerra contro l’umanità: ebbe un ruolo determinante nell’assedio di Sarajevo (1992-1996, morirono millecinquecento bambini) e nel massacro di Srebrenica (1995, ottomila morti: a Sarajevo c’è un museo dedicato alla loro memoria, alle pareti ci sono le fotografie che li ritraggono, sono quasi tutti ragazzi, una cosa da svenire). Il mondo si comportò da zombie con i Balcani: in uno dei suoi numerosi reportage da lì, Adriano Sofri scrisse che nei sarajevesi si era insediato «un desiderio triste ed esausto di morire», tanto erano certi di essere stati abbandonati. La comunità internazionale fece melina per anni, intervenne con timidezza, a passo felpato, il dibattito italiano sulla vicenda fu ideologico e inconcludente: i centri sociali ogni tanto scendevano in piazza per denunciarlo, Zombie veniva suonata alla testa dei cortei ed aveva parecchio senso, ma — naturalmente? — nessuna utilità.

Zombie è stata la colonna sonora dei pacifisti del decennio lungo, l’ultimo, del secolo breve? Non esattamente. È stata la canzone che, più forte di tutte, ha detto che i drammi di quel tempo erano l’elusione e l’illusione: sono passati vent’anni e ci facciamo ancora i conti. Dopo Zombie, Dolores O’Riordan ha fatto quasi tutto: tre figli, tantissime canzoni (non tutte belle come Zombie, alcune piuttosto deludenti), moltissimi duetti e, forse per fortuna, diversamente da quello che c’è scritto in qualche titolo di giornale di oggi, non è diventata un simbolo, perché non è mai stata una cosa sola (e quando mai un irlandese lo acchiappi e lo intabarri in una cosa sola?).

Zombie è stata la canzone che, più forte di tutte, ha detto che i drammi di quel tempo erano l’elusione e l’illusione: sono passati vent’anni e ci facciamo ancora i conti

La sua voce è stata una tortura e una benedizione, perché così sono gli irlandesi: la scorza ce l’hanno dura, ma non per questo l’anima ce l’hanno ispessita. «ll mondo è pieno di irlandesi o di persone che vorrebbero esserlo», dice Scrap a Frankie, vorace lettore di Yeats, in Million Dollar Baby. Come lei, piccole e forti, con le efelidi e gli occhi azzurri, incazzati e precisi, con quella sua voce irripetibile, flautata e grunge, mai un tweet se non di servizio, mai un’invasione di campo, con quel corpo e quella bio tutta fatti e pochissime parole, negli anni Novanta e adesso, non sarà nessun altro.

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