Aperta simbolicamente dalle due Ministre della Difesa di Francia e Germania, Ursula von der Leyen e Florence Parly, la Conferenza di Monaco sulla Sicurezza ha lanciato un segnale chiaro: in un sistema internazionale progressivamente instabile e multipolare, dove è “alto il pericolo di uno scontro militare tra le potenze”, l’Europa deve trovare la sua voce, anche militare.
Fosse stato per Wolfgang Ischinger, l’organizzatore, a Monaco ci sarebbero stati, con maggiore forza simbolica, Angela Merkel e Emmanuel Macron. Impegnata a Berlino nella costituzione del nuovo governo a oltre cento giorni dal voto, la Cancelliera ha preferito passare la palla. L’assenza dei due capi di governo, tuttavia, non incide sulla gravità del momento. L’approvazione, nel dicembre dello scorso anno, della Pesco (Cooperazione Strutturata Permanente per la Sicurezza e la Difesa), che crea un primo abbozzo di capacità militare comune europea, è un fatto, al contempo, di valenza simbolica e portata storica. Nel 1954, il fallimento della CED (Comunità Europea di Difesa) affossata per volontà francese, contribuì ad accelerare il processo di integrazione europea e portò, nel 1957, alla firma dei Trattati di Roma. Anche in materia di difesa, il processo dell’integrazione europea procede, ora come allora, al ritmo dei rapporti franco-tedeschi.
Solo oggi, tuttavia, il riassetto dei rapporti di forza internazionali accelerato dal disimpegno americano, dall’elezione di Donald Trump e dalla “potenza nascente” della Cina, costringono gli europei ad una presa di coscienza per evitare, come ha dichiarato il Ministro degli esteri tedesco Sigmar Gabriel, di rimanere «l’unico vegetariano in un mondo di carnivori». Sul palco di Monaco, Germania e Francia, quindi, hanno intonato lo stesso canto. Tuttavia, diversa è la posizione dei due paesi di fronte alle modalità concrete di intervento. Se alle parole devono seguire i fatti, Parigi e Berlino si muovono con diversa determinazione.
Il riassetto dei rapporti di forza internazionali accelerato dal disimpegno americano, dall’elezione di Donald Trump e dalla “potenza nascente” della Cina, costringono gli europei ad una presa di coscienza per evitare, come ha dichiarato il Ministro degli esteri tedesco Sigmar Gabriel, di rimanere «l’unico vegetariano in un mondo di carnivori»
Florence Parly, la Ministra francese, ha ricordato, con accenti forse diplomaticamente critici nei confronti di Berlino, che «una robusta difesa Europea comincia con gli sforzi fatti a casa propria». In concreto, come ben spiega il quotidiano Die Welt in un articolo del 16 febbraio, la Francia è decisa a destinare, con la nuova “Loi de programmation militaire” il 2% del proprio PIL alla difesa. Sono previsti, da qui al 2025, 300 miliardi di investimenti per la modernizzazione degli armamenti convenzionali e nucleari. Lo sforzo francese si colloca nel quadro della rivisitazione della strategia francese, voluta da Emmanuel Macron e messa a punto lo scorso ottobre. La Francia, come non mancano di notare diplomatici e esperti di sicurezza a Berlino, punta ad affermarsi come leader della difesa europea, unica potenza nucleare del continente.
A fronte di questo impegno, sembrano poca cosa i 250 milioni annuali aggiuntivi sul bilancio della difesa fino al 2025, previsti dall’accordo sul programma della grande coalizione appena approvato a Berlino. Le diffidenze sulle reali intenzioni francesi, sospettati di voler far prevalere il loro interesse nazionale su quello “europeo”, ancora tutto da definire, fanno il paio con le preoccupazioni di Parigi rispetto a una Germania ancora poco convinta delle proprie forze e dominata da un’opinione pubblica assai ostile all’idea stessa di intervento militare.
Le diffidenze sulle reali intenzioni francesi, sospettati di voler far prevalere il loro interesse nazionale su quello “europeo”, ancora tutto da definire, fanno il paio con le preoccupazioni di Parigi rispetto a una Germania ancora poco convinta delle proprie forze e dominata da un’opinione pubblica assai ostile all’idea stessa di intervento militare
Non a caso, tanto Ursula von der Leyen quanto il suo collega Sigmar Gabriel, in quella che potrebbe essere l’ultima apparizione comune dei due nei loro ruoli attuali, hanno ribadito la necessità che Berlino «si assuma maggiori responsabilità sul piano globale» e nella gestione delle crisi. Un motivo, questo, ricorrente del lungo mandato di Von der Leyen che, tuttavia deve fare i conti con la tradizionale riluttanza tedesca sul piano militare. Un’attitudine che sembra confermata, al di là della nuova retorica della difesa comune europea, dal programma di coalizione appena sottoscritto. D’altronde, Berlino considera la politica di sicurezza come un sistema a doppio binario: difesa militare da un lato e aiuto allo sviluppo dall’altro. Un altro punto di frizione con la nuova amministrazione USA che ha fortemente ridotto i contributi per interventi umanitari, azioni di prevenzione e “capacity building”.
Dal palco di Monaco, sotto la traccia della retorica comune europea, non sono rimasti inespresse pertanto le frizioni esistenti tra gli stati membri. Se molti, a partire da Juncker, hanno cantato il superamento della regola dell’unanimità per le decisioni in materia di difesa, le cose non sono così semplici. Ancora una volta, è Sigmar Gabriel a tirare le fila del discorso quando invita «ogni Stato» ad agire e contribuire «secondo le proprie possibilità, ma tutti con la stessa Agenda». Un punto questo assolutamente non banale. Perché a una difesa comune deve corrispondere per prima cosa una visione, una posizione e una strategia unitaria dell’Europa. E anche su questo resta molto lavoro da fare.