Contro la “glottofobia”, la discriminazione che avete fatto tutti

Distinguere sulla base del linguaggio, delle sfumature di accento, della capacità grammaticale, ma anche esprimere gerarchie tra una lingua e l’altra, che altro non sono che il rifletto delle condizioni di potere sociali

In Italia questa parola non c’è, ma dovrebbe esserci (è molto probabile però che ci sarà in futuro): “glottofobia”. Da non confondere con “glossofobia”, che è la paura di parlare in pubblico, la “glottofobia” è, invece, ogni atto discriminatorio fondato sul modo in cui una persona parla una lingua.

Non si tratta qui delle prese in giro per eventuali difetti di pronuncia personali (anche se..), ma delle diversità sociali che emergono nell’uso della lingua. Per capirsi, è glottofobia la discriminazione fatta sulla base di accenti regionali diversi, oppure di accenti stranieri. Ma è glottofobia anche il senso di superiorità della lingua nazionale nei confronti dei dialetti e, in Paesi come il Brasile, la repressione sistematica delle lingue minoritarie all’interno di una nazione. Ci si scandalizza tanto per la discriminazione fondata sul colore della pelle, o su un diverso credo religioso o un altro orientamento sessuale, ma nessuno dice niente per quella che avviene, ogni giorno, fondata sulla pronuncia della lingua.

Del resto, l’avversione per la scarsa scioltezza linguistica, se non è un problema in sé, è senza dubbio una spia efficace per altri problemi, sottostanti. Sottolineare i costrutti sbagliati e il lessico incerto di uno straniero è xenofobia? Può essere, ma solo se tradisce una lingua madre “inferiore”. Discriminare un accento identificativo di una regione è razzismo? Se non lo è, gli somiglia molto. Denigrare chi, pur esprimendosi nella sua lingua madre, dimostra scarsa dimestichezza con alcune regole della grammatica, è classismo? Senza dubbio.

E allora sì, chi deride Giggino Di Maio – un nome a caso – per la sua impreparazione linguistica e i congiuntivi fantasiosi compie un atto di glottofobia. Ma – attenzione – lo farebbe anche chi, sganasciandosi dalle risate, prende in giro i vari Rutelli, Berlusconi e soprattutto Renzi per il loro improbabile inglese: l’atto glottofobo sta anche nello stabilire gerarchie tra le lingue, a favore di quelle dominanti come l’inglese (ma in passato era il francese) e a discapito di quelle subordinate come, in questo caso, l’italiano. È già autoglottofobia.

In particolare, passa sotto la categoria di glottofobia la repressione di lingue considerate aliene: ad esempio, la lotta contro l’esperanto portata avanti da Stalin. Il dittatore sovietico, per farsi capire bene, arrivò anche a far uccidere anche dieci esperantisti. Va un po’ meglio ma non tanto alle lingue regionali iberiche e francesi, come il catalano (più volte definito, con disprezzo, un “dialetto”), o l’alsaziano, il bretone e il bambara. Perché non difenderle?

Del resto, la possibilità di insegnare nelle classi anche il dialetto, come avviene in alcuni paesi del Friuli, va verso questa direzione: anti-glottofobia. Ma alcuni illuminati, tempo fa, pensavano che fosse solo retroguardia.

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