La vera emergenza del mondo si chiama acqua (e quando ce ne accorgeremo sarà troppo tardi)

Entro il 2030 una persona su due vivrà in zone a rischio siccità. Le ricerche individuano il Medio Oriente, il Sahel, l’Africa centrale e l’Asia centrale e orientale tra le aree più colpite. In futuro, i profughi legati agli effetti del cambiamento climatico potranno essere oltre 150 milioni

Nella smania neoliberista di possedere le risorse naturali, anche l’acqua è diventata oggetto di scontri commerciali, tensioni sociali e guerre internazionali. Tanto più che l’«oro blu» sta diventando un bene molto prezioso: entro il 2030 una persona su due al mondo vivrà in zone ad elevato stress idrico. Già oggi multinazionali che imbottigliano l’«acqua del sindaco» rivendendola a peso d’oro mettono le mani su sorgenti, laghi e fiumi. Perché acqua ne serve molta, anzi moltissima. Per tutto. Per produrre la Coca-Cola che viene quotidianamente venduta servono ogni giorno 75 miliardi di litri di acqua.

In queste pagine si viaggia dal Michigan del fracking al Bangladesh delle falde superinquinate, si percorre il Mekong «assediato» dal sale marino e si toccano con mano – in Swaziland, Brasile e altrove – gli effetti delle monocolture sulla possibilità, per i poveri, di avere acqua per mangiare, bere e lavarsi. In pratica, per vivere.

Un viaggio intorno al globo molto documentato, appassionato e appassionante, per conoscere un problema che riguarda milioni di persone, soprattutto gli ultimi. La geopolitica e l’economia iniziano a fare i conti con l’acqua, anzi, con la sua mancanza. Qui si comprendono il dove, il come e il perché di una questione che ci tocca tutti. Non solo quando abbiamo sete.

Di seguito, un breve estratto del libro.

E. Bompan e M. Iannelli, Water Grabbing. Le guerre nascoste per l’acqua nel XXI secolo, Verona, Emi, 2018

La moto di Lom Dum è carica di quasi tutti i beni della sua famiglia: i sacchi con le vecchie reti da pesca, una sporta con i vestiti dei due figli, una con quelli suoi e di sua moglie, una scatola di cartone con alcuni cimeli di famiglia e le pentole da tenere tra le gambe. Con lui salirà a bordo anche tutta la famiglia. L’arte di caricare le moto fino all’inverosimile in Cambogia rimane imbattuta in tutto il mondo. «Porto spesso pacchi e materiali – dice Lom –. Questa però è la prima volta che mi imbarco in un viaggio cosi lungo». Lom Dum ha deciso di accettare la compensazione di cinquemila dollari per la sua casa sul fiume, offerta dalla società China’s Hydrolancang International Energy per acquisire tutti i terreni necessari per l’invaso della diga Lower Sesan II, costruita lungo un affluente del Mekong, il Sesan. Trasferitosi nel villaggio di ricollocamento, costruito in fretta e furia per ospitare gli sfollati, si è presto accorto che, senza fiume vicino e con i terreni sterili e pietrosi, non c’era modo di trovare sostentamento per la propria famiglia. I soldi sono finiti in fretta. Così ora ha deciso di andare a Stung Treng, la città più grande della provincia, o, se la sorte lo accompagna, dice lui, fino in Thailandia, dove c’è più lavoro e prosperità. Halim invece viene dalla Regione dei Somali, una delle suddivisioni amministrative etiopi. Sta aspettando un autobus nell’affollata stazione bus settentrionale di Addis Abeba. Racconta del suo viaggio rocambolesco dal villaggio di Buur Cukur.

«Non c’è acqua, non c’è cibo. Il governo fatica a consegnare le derrate alimentari. E spesso non ci lasciano nemmeno uscire dalla regione. Non vogliono che arriviamo qui in città. Per sfuggire ai controlli delle guardie mi sono nascosto sotto un camion». La sua terra è attanagliata da oltre due anni di siccità prolungata, dovuta alle masse di aria calda dall’Oceano Indiano, che ha ucciso milioni di capi lasciando senza speranza gli allevatori dell’area. Il governo non ha soldi. Per alleviare la siccità ha investito nel 2017 solo 42 milioni di euro, mentre anche un’organizzazione come il Programma alimentare mondiale (Wfp), racconta Pail Scheem del Washington Post, ha dovuto ridurre le derrate alimentari nella Somali dell’8%, non avendo trovato donatori per coprire il buco di 110 milioni di euro nel budget, dovuto principalmente ai tagli di Donald Trump ai contributi alle agenzie delle Nazioni Unite come il Wfp. Il rischio per i prossimi anni è che la siccità scateni una carestia su larga scala, costringendo milioni di persone a fuggire in cerca di cibo. Per chi studia i fenomeni migratori, oggi appare sempre più evidente come l’acqua sia uno dei principali fattori ambientali che condizionano la mobilità e che più risentono del cambiamento climatico. Lo ribadiscon ong come Gvc, Oxfam, Save the Children e grandi organizzazioni come il World Economic Forum, che nel suo Global Risk Report 2016 ha inserito le crisi idriche tra le principali cause delle migrazioni. In generale, dal 2009 una persona al secondo ha dovuto lasciare la sua terra a causa di eventi meteo-catastrofici. Nel solo 2016 ci sono stati 22,5 milioni di profughi ambientali, di cui una parte per problemi legati all’acqua, come siccità, inondazioni, innalzamento del livello del mare.

In generale, dal 2009 una persona al secondo ha dovuto lasciare la sua terra a causa di eventi meteo-catastrofici. Nel solo 2016 ci sono stati 22,5 milioni di profughi ambientali, di cui una parte per problemi legati all’acqua, come siccità, inondazioni, innalzamento del livello del mare

Al 2050, secondo i calcoli del professor Norman Myers dell’Università di Oxford, i profughi legati agli effetti del cambiamento climatico potranno essere oltre 150 milioni. Attualmente, circa 1,6 miliardi di persone, quasi una su quattro, risiedono in paesi conpoca disponibilità di acqua, e le previsioni indicano che in un ventennio la cifra potrebbe raddoppiare. In maggioranza vivono in paesi con scarsa disponibilità finanziaria – come nel caso dell’Etiopia – per realizzare le infrastrutture necessarie a ovviare alla penuria d’acqua, né hanno la volontà politica di aderire a trattati e ad accordi bi- e multilaterali, o un’adeguata capacità di governance. Inoltre, l’acqua disponibile è spesso contaminata da rifiuti, resti fecali ed elementi tossici. Per l’International Food Policy Research Institute (Ifpri), tra 650 milioni e 1,3 miliardi di persone risiedono in bacini con elevate quantità di azoto, fosforo, arsenico. Un decimo dei fiumi di Asia, Africa e America Latina hanno livelli di salinità eccessiva, mentre un terzo dei fiumi, particolarmente in Asia, hanno elevati livelli di patogeni nell’acqua, che sono causa di dissenteria, colera e altre malattie. E quando l’acqua è contaminata e uccide, la salvezza è nella fuga. Difficile dire quali saranno le aree più esposte alle migrazioni legate all’acqua e ai suoi conflitti.

Certamente tutte le ricerche individuano il Medio Oriente, il Sahel, l’Africa centrale e l’Asia centrale e orientale tra le aree più colpite. Secondo la Banca Mondiale, le migrazioni legate all’acqua comporteranno perdite allarmanti di Pil stimate tra il 7% (Asia orientale e Africa centrale) e il 14% (per il Medio Oriente) circa. Nel Sahel e in Asia centrale si prevede un calo drammatico di circa l’11% (mentre nel Sud-est asiatico si ipotizza il 2%). Di sicuro si registreranno migrazioni importanti e non sempre di grande scala. Come quella di Lom Dum, interna, a corto raggio, una strategia di resilienza e ottimizzazione in situazioni non gestibili o non governate. Questo tipo di spostamenti interni vedrà interessate soprattutto le fasce più povere, i piccoli agricoltori che non hanno le risorse per spostamenti di lunga distanza, in particolare verso i paesi industrializzati o di nuova industrializzazione. Questi soggetti, in alcuni casi particolarmente acuti, rimarranno intrappolati nelle aree colpite, privi di qualsiasi mezzo per spostarsi, se non a piedi. Inoltre, in alcuni casi come l’Etiopia o la Libia, Mali, Niger, ma anche Messico e Myanmar, la riduzione della possibilità migratoria sarà indotta – o così già accade – da politiche tese a disincentivare i movimenti di popolazione, sostenute da governi locali o da potenze straniere che pretendono in tal modo di fermare i flussi di migranti. Condannando così le persone a rimanere in aree fortemente svantaggiate, o a intraprendere viaggi in condizioni illegali e pericolose, spesso finendo in campi-prigione o cadendo vittima di organizzazioni criminali che gestiscono la tratta dei nuovi schiavi, dalla prostituzione ai lavori forzati.»

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