Dalle scie chimiche di qualche anno fa fino alla morte accidentale dell’albero Spelacchio, dallo scandalo Rimborsopoli fino ai congiuntivi di Di Maio, da ultimo, proprio ieri, le reazioni sarcastiche al limite del classismo, alla notizia, poi rivelatasi non corretta, delle code ai Caf pugliesi di gente che voleva i moduli per richiedere il reddito di cittadinanza.
L’ironia verso i pentastellati non è certo una novità — l’elenco poteva andare avanti a lungo — ma, dopo una campagna elettorale fortemente connotata sui toni dell’attacco e dell’irrisione, quell’atteggiamento canzonatorio di superiorità di una parte della sinistra italiana si sta trasformando in qualcos’altro, qualcosa di brutto, che non fa più ridere, qualcosa di molto meno sano dell’ironia: una sorta di snobismo che ha parecchio di autoassolutorio.
Quella che all’inizio era ironia canzonatoria si sta trasformando in qualcos’altro, qualcosa di brutto, che non fa più ridere, qualcosa di molto meno sano dell’ironia. Una sorta di snobismo che ha parecchio di autoassolutorio
Non è una cosa da prendere alla leggera. È una dinamica inquietante, e lo è soprattutto perché emerge in un popolo, quello “di sinistra”, che da sempre costruisce il proprio impegno politico e sociale in direzione degli oppressi, dei deboli, degli svantaggiati. Proviene cioè da della gente che, dopo decenni passati a voler insegnare a leggere agli analfabeti, ora si ritrova ad usare la stessa parola “analfabeti” come insulto per umiliare gli avversari, ritrovandosi più elitista, classista e ogni tanto persino razzista degli avversari populisti.
Il rapporto tra la sinistra e gli oppressi è contemporaneamente fondativo e contraddittorio, da sempre. Fondativo perché è proprio per difendere l’eguaglianza degli esseri umani e per cercare di emancipare le classi subalterne e schiantare le meccaniche di sfruttamento messe in pratica dalle classi dominanti che è nato il comunismo e il socialismo. Contraddittorio perché la maggior parte dei grandi pensatori di sinistra da Bakunin a Berlinguer, sia dell’ala radicale e anarchica che di quella marxista e comunista, non provengono certo dalle classi popolari, bensì dall’aristocrazia e dalla nobiltà,.
Eppure, se uno come Marx, che proveniva da un’ottima famiglia delle classi agiate della Prussia di inizio Ottocento, poteva terminare il Manifesto invitando i proletari di tutto il mondo a unirsi e combattere contro i loro oppressori, non si riesce a capire come i suoi pronipotini se la prendano con i propri avversari dando loro dei poveracci ignoranti e analfabeti. Devono per forza essersi dimenticati qualcosa per strada.
È un atteggiamento snob e classista che dovrebbe far riflettere, anche perché risulta difficile pensare che non abbia alcun collegamento con l’emorragia di voti che ha subito il Partito Democratico
È un atteggiamento snob e classista che dovrebbe far riflettere, anche perché risulta difficile pensare che non abbia alcun collegamento con l’emorragia di voti che ha subito il Partito Democratico nel corso degli ultimi anni di stagione renziana. Da questo punto di vista è interessante leggere tra le righe dell’articolo che il deputato del Pd Ivan Scalfarotto ha scritto sul Post a poche ore dal voto: «Siamo diventati», scrive Scalfarotto, «il partito preferito dalle classi abbienti, dagli intellettuali, dalla borghesia illuminata, dagli imprenditori più capaci, in una parola dalle eccellenze di questo nostro Paese. Questo non è certamente sbagliato, sulle eccellenze bisogna sicuramente costruire, ma dobbiamo reimparare a essere a nostro agio anche con gli ultimi, i diseredati, con chi non ce la fa, persone che non ci riconoscono più – e questa responsabilità è nostra, non loro – come potenziali punti di ascolto».
In questa frase c’è quasi tutto: dalla presa di coscienza dell’essersi dimenticati qualcuno per strada, che, almeno quella, fa ben sperare, fino all’incapacità di rendersi conto, nemmeno scrivendolo nero su bianco, del proprio atteggiamento venato appunto di paternalismo e classismo, quello che si inchina di fronte alla magnifica eccellenza alle élite e che invece guarda agli svantaggiati con pietà/sussiego, considerandoli come un fastidioso corpo esterno. E se una volta l’obiettivo era lottare per la loro emancipazione, ora si limita allo sperare di riuscire a sopportarli, quei poveracci, ad “essere a nostro agio” anche con loro, anche se non sanno parlare italiano, se non leggono nemmeno un libro e se non sanno capire una frase complessa. Quasi come se se lo meritassero. Quasi come se fossero di una specie diversa.