Sono pochissimi i libri che trascendono l’idea stessa di libro, libri che pretendono di essere ‘vissuti’, mica letti. Tra questi ci sono, chessò, Don Chisciotte, Moby Dick, Cuore di tenebra, Le memorie del sottosuolo, Viaggio al termine della notte, Angelo guarda il passato, Il castello, Mentre morivo, la Recherche, La morte di Virgilio. Libri in cui l’autore è morto a se stesso dando splendore alla scelta, al demone radicale. Libri che ti costringono a fare due cose. Lasciare tutto e cambiare vita. Oppure. Lanciarli fuori dalla finestra. Per poi correre in giardino a ripescarli. Sapendo che è impossibile ‘leggerli’. Bisogna custodirli e contemplarli, questi libri di abbacinante rarità. Li si legge lungo l’arco di una vita. Sono libri che non parlano alla testa ma alle viscere – che impongono un groviglio linguistico nuovo. La storia della letteratura non è né un ‘prima’ né un ‘dopo’ quei libri. Termina, perentoriamente, con loro, ogni volta. Uno di questi libri s’intitola Sotto il vulcano, è stato pubblicato, dopo vari rifiuti e innumerevoli ripensamenti, nel 1947, da un tizio che in una antica nota editoriale è presentato come “rampollo di una ricca e morigerata famiglia di commercianti metodisti”, nato nel 1909, che “ereditò la passione per la vita di mare dal nonno materno, un celebre lupo di mare norvegese, e la passione per la letteratura marinaresca da Melville, Conrad, O’Neil. Già a 18 anni, prima di iscriversi all’università di Cambridge, fece un viaggio fino in Cina e da questa esperienza ricavò il materiale per il suo primo romanzo, Ultramarina”.
C’è già, per uno che nei libri cerca la vita, oceanica, di che armarsi – ma noi sappiamo che la biografia, di solito, è uno sberleffo in faccia all’opera. In effetti. Malcolm Lowry, incapace alla vita, sonoro ubriacone, morto nel 1957, con Sotto il vulcano scrive un libro ‘di culto’, uno di quei libri che sanno sussurrare a te – proprio a te – in spregio a ogni norma narrativa, la verità laida e gloriosa della vita. La trama è schietta. Un tipo, Geoffrey Firmin, solitamente chiamato il Console, nel Giorno dei Morti del 1938, in un Messico mai così lisergico, barocco, folle, penetra negli inferi alcolici del proprio cuore, delirando per la moglie fedifraga – sempre cercata, trovata e perduta – l’aitante Yvonne. Il modello di Lowry è Joyce, ma qui lo sperimentalismo linguistico diventa una specie di macumba, le fonti s’impilano – dalla Cabbala a Dante – in un rutilante requiem. E la memoria è spappolata dall’alcol, è come zingari di vetro, Proust che invita a cena Jimi Hendrix. Dal libro, nel 1984, John Huston trasse un film livido ma bruttino con Albert Finney e Jacqueline Bisset. “Lowry volle scrivere, per sua stessa ammissione, una Divina Commedia ubriaca”, ghigna la ‘quarta’ di una delle varie edizioni Feltrinelli. E qui viene il bello. Sotto il vulcano, fino alla scorsa edizione, circolava nella traduzione di Giorgio Monicelli, super traduttore e creatore della ‘fantascienza’ all’italiana. Dopo un tot, ha preso a circolare una traduzione di Monicelli “riveduta e corretta”. Ora, era ora, atterra in libreria una traduzione nuovissima e d’autore: la firma Marco Rossari, che tra i tanti ha tradotto Dickens, Twain, Dave Eggers, che l’anno passato ha scritto un libro colto su Bob Dylan, e quest’anno, in parallelo al Lowry, è in libreria con un romanzo edito da Einaudi, Nel cuore della notte. Ora. Ce lo dirà lui. Dissezionare la lingua di Lowry è una esperienza da cocainomane biblico. Ti squarta il cervello. Esempi? Eccoli. Primo. Fine del quarto capitolo. Mood shakespeariano. “Era come se egli guardasse ora oltre quella distesa di pianure e al di là dei vulcani fino agli enormi cavalloni blu dell’oceano, e se la sentisse nel cuore ancora una volta, la sconfinata impazienza, l’incommensurabile nostalgia”. Questo è Monicelli ‘rivisto’. Questo è Rossari: “Era come se in quel momento stesse contemplando al di là della sterminata pianura e oltre i vulcani l’enorme tumultuoso azzurro oceano stesso, percependolo ancora dentro il cuore: l’impazienza illimitata, la brama incommensurabile”. Secondo. Verso la fine del libro, il precipizio. “Pioveva dolcemente. Ombre gli si agitavano intorno, tenedogli la mano, forse cercando ancora di vuotargli le tasche, o di aiutarlo, o per semplice curiosità. Egli poteva sentire la sua vita rifluire dal corpo come fegato trinciato, spandendosi nella tenerezza dell’erba. Era solo. Dov’erano andati tutti gli altri? O non c’era mai stato nessuno? Quindi un volto s’illuminò nell’ombra, una maschera di compassione”. Questo è Rossari. “Piovigginava. Ombre aleggiavano sopra di lui, gli tenevano la mano, forse gli frugavano ancora nelle tasche, forse volevano aiutarlo, forse erano solo incuriosite. Sentiva la vita abbandonarlo a poco a poco come un fegato fatto a pezzetti, rifluendo sull’erba soffice. Era solo. Dov’erano tutti? Forse non c’era mai stato nessuno. Poi un viso emerse dalle tenebre, una maschera di compassione”.Lowry è una nenia ipnotica. Rossari ha fatto a meno della portaerei retorica: ha messo olio alla lingua. Che ora trascina. Attenzione però. Leggere Lowry può essere pericoloso.
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