Occhio, Cinque Stelle: il centrodestra stravince (e prima o poi farà saltare il Governo Conte)

L’ultimo giro di elezioni amministrative ha segnato il ritorno di un centrodestra che unito vince. Cinque Stelle in calo e sinistra in crisi di identità fanno il gioco di Salvini

Il centrodestra è vivo e lotta insieme a loro: la testa d’ariete Matteo Salvini, la regina di spade Giorgia Meloni e l’ammaccato eppur mai domo Silvio Berlusconi. Come già un anno fa, quando il Partito democratico cedette Genova e Sesto San Giovanni ma i Cinque Stelle non toccarono palla nei comuni al voto, anche le amministrative di domenica hanno certificato un sussulto bipolare, centrodestra contro centrosinistra, come una coda di cometa che rifiuta d’inabissarsi al cospetto del governissimo romano gialloverde. Certo, la Lega fa il pieno al nord e si divora capre e cavoli berlusconiani in giro per l’Italia, sopra tutto al centro (a parte qualche balbettio a Viterbo), un po’ meno al sud (bene però nella Sicilia rurale), con l’operaia Terni che deciderà al ballottaggio ma non è più di sinistra, e un bilancio complessivo da partito-Mangiafuoco. A patto, tuttavia, di rimanere ancorati allo schema tradizionale di un’alleanza che rispecchi la sensibilità dell’Italia profonda che si è radicalizzata ma resta compatta, identitaria e conservatrice.

La geografia elettorale ci mette al cospetto di una situazione in cui Salvini pesca bene ovunque, ma non potrà spendere troppo a lungo con Luigi Di Maio una dote raccolta insieme a Berlusconi e Meloni. Anche perché i pentastellati realizzeranno presto che la scappatella con i padani-tricolori è un’impresa senza molti dividendi in vista, e anzi con la prospettiva di perdite non troppo socializzabili.

Il MoVimento Cinque Stelle ha ricevuto il mandato di governare purchessia, tuttavia appare già evidente – vedi il caso Aquarius – quali siano i veri professionisti della politica capaci di far fruttare la maggioranza gialloverde per arricchire la dispensa domestica. Non vuole essere una constatazione malaugurante, è soltanto la principale linea di tendenza: la Lega ha interesse a mantenere vivo il patto con i pentastellati fintantoché riuscirà a gestire il rapporto alla pari, e a proseguire nel suo lento, dolce e variegato vampirismo di consensi.

Mancano soltanto il Piemonte (dove si voterà l’anno prossimo) e il Trentino (al voto tra pochi mesi) per completare l’egemonia liberal-populista dell’arco alpino che va dalla Liguria al Friuli Venezia-Giulia passando per Valle d’Aosta, Lombardia e Veneto

La riserva di sangue berlusconiano non è inesauribile ma il gioco potrebbe farsi fruttuoso per entrambi: Forza Italia vive l’emorragia con la speranza di poter nasconderla, prima o poi, attraverso qualcosa di simile a una confederazione, un cartello unitario che alla fine potrebbe convenire anche a Giorgia Meloni. I numeri delle ultime tre tornate elettorali danno ragione a coloro – quorum ego – che nel centrodestra insistono a voler scorgere l’orizzonte naturale, se non di destino, d’un blocco politico litigioso ma vincente. Basta guardare alle aree del Veneto in cui la coalizione ha appena sbancato al primo turno Vicenza e Treviso. È sufficiente osservare le regioni dell’estremo e operoso nord, dove mancano soltanto il Piemonte (dove si voterà l’anno prossimo) e il Trentino (al voto tra pochi mesi) per completare l’egemonia liberal-populista dell’arco alpino che va dalla Liguria al Friuli Venezia-Giulia passando per Valle d’Aosta, Lombardia e Veneto. Berlusconi è troppo intelligente per non aver fiutato la direzione del vento della storia, cangiante quanto si voglia ma adesso preciso e impetuoso. Dopotutto, pur di detenere quote marginali di potere, Forza Italia saprà ben fingersi la ciliegina sulla torta sovranista.

La sopraggiunta agonia del Partito Democratico rende del resto velleitario ogni tentazione da Fronte repubblicano (anche detto Nazareno dei perdenti), così come l’ha generosamente disegnato l’ex ministro Carlo Calenda. Se la sinistra avrà un domani, ed è auspicabile che ce l’abbia, con ogni probabilità non sarà al di fuori della sinistra. Che tipo di sinistra, se domiciliata alla Leopolda o meno, ancora non si sa; vero è che non potrà più fondarsi sul ristretto club elettorale dei centri storici o sulle rendite politico-catastali delle coltivate città toscane come Pisa, già fortilizio della Normale dalemiana, avviata ad alzare bandiera bianca alla maniera di Pistoia. Siena potrebbe salvarsi in qualità di città-Stato del Monte dei Paschi, condanna e delizia di una consorteria residuale ancora forte. Già me lo vedo, lo slogan crepuscolare: ripartire da Milano o da Brescia, la Leonessa cattolico-popolare riconquistata al primo turno grazie al buon senso di una cultura del fare oculata, solidale, silenziosa. Chissà.

Resterebbe da spendere qualche parola sul Mezzogiorno, dove a ogni giro di urne s’invera il giudizio sconsolato di Vincenzo Cuoco: “Moltissimi avevano la repubblica sulle labbra, moltissimi l’avevano nella testa, pochissimi nel cuore”. Landa di conquista per urlatori variopinti, in stile 1799, ovvero terra vergine per l’innesto d’una pedagogia del reale materiata d’oneste e larghe infrastrutture in conto capitale? L’avvocato apulo Giuseppe Conte conosce la risposta. Europa permettendo.

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