Vincenzo Sparagna: «Il mito post mortem di Pazienza farebbe schifo persino ad Andrea»

A trent'anni dalla morte di Andrea Pazienza, parla Vincenzo Sparagna, suo amico e collega di mille avventure editoriali, dal Male a Frigidaire: «questo mito del genio assoluto stesso Andrea, se fosse vivo, gli farebbe schifo»

C’è una foto in bianco e nero, scattata nel febbraio del 1982 a Pisa, fuori dalla mostra mostra “Immagini in Frigidaire” allestita a Palazzo Lanfranchi, che coglie in un istante una intera stagione della satira e della illustrazione italiana. Ritrae sei personaggi un po’ scapestrati, nella posizione a due file delle squadre di calcio, ma al posto di due palloni hanno per le mani due elmi medievali, da battaglia.

In piedi, appoggiati su un muro di mattoni, ci sono Tanino Liberatore, Vincenzo Sparagna, Filippo Scòzzari e Massimo Mattioli. Accovacciati, invece, ci sono Stefano Tamburini e Andrea Pazienza. Guardano tutti dritti in camera. Tutti tranne uno. Andrea Pazienza, infatti, che ormai tutti chiamiamo amichevolmente Paz, come se fosse nostro amico da una vita, guarda a lato, a destra della macchina fotografica. Ovviamente non possiamo sapere cosa in quel momento avesse attirato il suo sguardo, e un po’ anche chi se ne frega. Ma in quelle sei facce, in quelle pose un po’ impacciate e un po’ sornione, c’è il momento più alto e libero della satira italiana. Di sempre.

Da quella foto sono passati 36 anni e i due ragazzi accovacciati, Tamburini e Pazienza, se li è portati via l’eroina. Il primo, nel 1986, il secondo solo due anni dopo, nella notta tra il 15 e il 16 giugno del 1988, esattamente trent’anni fa. E se purtroppo di Stefano Tamburini se ne ricordano ancora in pochi, di Andrea Pazienza, al contrario, c’è quasi una gara a chi se lo ricorda meglio, a chi gli era più amico.

Dei quattro sopravvissuti a quella stagione pazzesca, uno, Vincenzo Sparagna, quello al centro coi baffi e gli occhiali su cui, nella foto, rimbalza il riflesso della luce, ha continuato imperterrito a portare avanti la fiammella di quell’idea, quella stessa che aveva portato quei sei personaggi, ognuno geniale a modo suo,davanti a quell’obiettivo, nel febbraio del 1982. E ora, dopo fallimenti, processi, debiti e altre disavventure, vive a Frigolandia, — “prima e unica repubblica marinara di montagna”, come la definisce chi ci abita — eremo libero sui monti martani in Umbria, continua a portare avanti Frigidaire, con la stessa tenacia di quei tempi.

«Andrea l’ho conosciuto perché all’epoca, come per tutta la vita, facevo dei lavoretti per mantenermi e collaboravo qua e là per dei giornali», mi racconta proprio dal telefono fisso di Frigolandia, «Ogni tanto tra quelle collaborazioni mi capitava di scrivere per un quotidiano romano che si chiamava Paese Sera, che era una specie di Unità, ma che usciva nel pomeriggio e lì dedicai buona parte della terza pagina, quella che allora era la pagina culturale, a recensire il primo e il secondo numero della rivista Cannibale. Ne erano uscite solo 300 copie, ma feci una recensione talmente entusiastica che poi entrai in contatto con gli autori e fu l’inizio di un’amicizia. Poi, in realtà, Andrea l’ho incontrato per la prima volta quando sono arrivato nella redazione del Male, nel quale sono entrato dal numero 3 su invito di Pino Zac.

Quelli che non l’hanno conosciuto o che, come me, sono nati troppo tardi per conoscerlo da vivo tendono spesso a mitizzarlo, ma che uomo era veramente?
Andrea era un ragazzo ribelle come eravamo un po’ tutti noi, almeno all’epoca, che poi con il tempo siamo rimasti ben pochi a restare ribelli e non integrarsi, ma va be’, forse questo è un altro discorso. Dicevo, era un ragazzo molto ribelle sia dal punto di vista delle idee sia dal punto di vista del comportamento. Era molto simpatico, allegro, era una persona con cui si stava benissimo: si chiacchierava, si fantasticava, si facevano progetti. Devo dire che in quel momento attorno al Male si era incontrato un bel gruppo di gente che portava avanti molti progetti in comune. Lui era uno di questi, uno dei più simpatici e comunicativi.

Tu e Pazienza avete fatto molti progetti insieme, cosa vi univa così tanto?
Oltre a questa simpatia generale, tra me e lui c’era una particolare affinità di gusto, preferivamo più o meno le stesse cose, eravamo cresciuti leggendo gli stessi libri illustrati, disegnati dagli stessi disegnatori. Io disegnavo in un modo e lui in un altro, diversissimo, ma ci univa una stima reciproca che ci ha portato tante volte insieme. Era vitale, pieno di spunti, faceva molto ridere. Era pugliese e io sono napoletano, e anche il fatto di sentirci in qualche modo “all’estero” ci accomunava, sai, quell’ironia meridionale…

C’è ancora nel mondo di oggi quel senso di ribellione di cui mi parli?
Di quella ribellione, nel mondo di adesso, rimane soltanto la necessità di metterla in pratica, quella ribellione. Se una volta c’erano tutti i motivi per ribellarsi, ora ce ne sono molti di più dal mio punto di vista. Ma nel frattempo c’è stata una forma di cattura sociale molto forte e probabilmente quello che è venuto meno è questo sentirsi nella disponibilità di rovesciare tutto. Dove prima c’era una spinta naturale e collettiva a organizzarsi e ad agire in gruppo, oggi c’è individualismo, si ricerca più il successo individuale. Questa è un’epoca che avrebbe bisogno di una straordinaria spinta di rivolta, di ribellione, ma a volte queste cose vengono canalizzate in percorsi individuali. All’epoca era naturale ritrovarsi ad essere gruppo, ora è decisamente più difficile.

Prima mi accennavi di come in molti di quel mondo siano cambiati, cosa intendevi? Che cosa è successo?
È successo che c’è stato chi ha avuto una sua continuità ideale di autonomia e chi invece con gli anni, come un po’ succede nello sviluppo della gente a un certo punto la vita quotidiana, il dover trovarsi da vivere, i figli, le famiglie, tante cose ti portano a lasciar perdere le grandi spinte ideali della giovinezza. Una volta pensavo che ci si comincia a rincoglionire a trent’anni, forse ora a 35 ma non cambia poi molto. Quella generazione si è divisa tra chi ha fatto una scelta di rientro dentro i canoni ordinari della società, diventando giornalista, grafico o comunque avendo successo in un campo qualsiasi della cosiddetta cultura, magari entrando al Corriere della Sera, alla RAI o ha iniziato a lavorare con Berlusconi, con Mediaset.

E gli altri?
Altri invece si sono persi per strada tragicamente, come è stato il caso di Andrea. Perché sai, c’è stato una responsabilità molto pesante dell’eroina, dello sballo che è andato oltre i limiti e ha finito col produrre dei disastri. Poi c’è stata anche una parte di quella generazione che ha fatto scelte politiche tragiche, e intendo i compagni che si sono dedicati alla lotta armata e alla fine molti di loro sono finiti in carcere, altri sono morti. Insomma, diciamo che un grande patrimonio collettivo di rivolta è andato a finire in tanti rivoli diversi. Noi siamo andati avanti e ancora lo facciamo con Frigidaire, ma la situazione è molto diversa da come poteva essere 20, 30 o 40 anni fa. A conservare l’autonomia di riflessione, di pensiero e di azione non ci sono riusciti in tanti.

E adesso invece?
Adesso le condizioni sono completamente diverse. È cambiato l’intero sistema della comunicazione, ma anche tutto il contesto geopolitico mondiale. Dalla morte di Andrea sono trascorsi 30 anni esatti, dalla fondazione di Cannibale e di Frigidaire 40. È cambiato tutto, all’epoca non c’erano nemmeno le televisioni a farti vedere le cose in diretta come oggi, figuriamoci internet o tutto il resto. E poi non eravamo 7 miliardi e rotti, ma meno della metà. Le trasformazioni sono state tante. Le idee generali possono essere valide anche da un’epoca storica all’altra, ma oggi viviamo una fase di agonia tragica del capitalismo che, seppur ci fosse anche all’epoca, non era minimamente così avanzata.

Cosa intendi per agonia del capitalismo?
Quando parlo di agonia del capitalismo non penso che il capitalismo verrà superato da chissà cos’altro, può anche darsi che ci porti allo sfascio. Ma proprio per questo credo che oggi ci sia molta più ragione di ribellarsi.

Rispetto a quando facevate voi le riviste oggi però sarebbe più facile, sostanzialmente bastano pochi spiccioli per avere uno spazio, non serve nemmeno più la carta, perché invece sembra tutto più difficile?
Prima dovevi superare difficoltà notevoli, che oggi apparentemente non ci sono o ci sono molto di meno. Una volta c’era quella che io definisco una censura del silenzio, era difficilissimo prendere la parola ed era la forza collettiva che ti permetteva di prendere la parola nel silenzio. I primi numeri di Cannibale sono stati stampati con carta rubata e io in prima persona mi sono dovuto prendere carico di un sacco di debiti per fare il giornale. Ma tutte queste difficoltà facevano in qualche modo da filtro, facevano restare in gara soltanto quelli che avevano delle straordinarie qualità e una grande tenacia nel fare le cose. Quindi alla fine c’era una sorta di selezione naturale di quelli che alla fine ce la facevano affrontando terribili sforzi.

Cosa è cambiato oggi?
Oggi invece c’è una censura del rumore, nel senso che oggi tutti possono parlare ed esprimersi con estrema facilità, almeno apparente, e c’è una sorta di rumore di fondo, talmente soverchiante che fai fatica a farti sentire. Per questo dico che oggi è molto più difficile, perché se prima riuscivi a farti sentire alzando la voce nel silenzio e qualcuno poi riusciva anche a sentirti, oggi ci sono milioni di voci che si sovrappongono, come quelle trasmissioni televisive dove parlano tutti insieme e non si capisce più niente. Ognuno ha il suo blog, ognuno la sua pagina Facebook. Mancando questo sforzo per superare questo muro di silenzio, questo sforzo per conquistare la voce, a questo punto chiunque spara qualunque cazzata. Restiamo nel campo dell’immagine, prima dovevi pubblicarla un’immagine e, per parlare proprio di Andrea, quando arrivava in redazione e portava le cose che aveva fatto alcune cose andavano bene, altre no e potevamo parlarne e quando usciva qualcosa era perché insieme avevamo deciso che andava in stampa. Oggi chiunque dalla sua pagina pubblica qualsiasi cazzata che gli viene in mente, dallo scherzo più cretino alla battuta più stupida al disegno più sporco, e questo rende quasi impossibile la selezione della qualità e tutto si perde nel rumore. È un peccato, perché cose di valore ce ne sono.

Per esempio?
Guarda, sono stato a una bellissima manifestazione quest’anno a Milano, si chiama AFA, e di cose interessanti ce n’erano tantissime. Solo che seppur interessanti restano in quello spazio individuale che rende impossibile poi arrivare non dico a 1000 lettori, ma nemmeno a 100.

Siamo diventati incontinenti?
Sì, è così, ed è un ulteriore elemento di censura. Ma come dicevo prima anche il contesto conta tantissimo. All’epoca facevamo dei falsi che stampavamo clandestinamente in Polonia, Russia, anche in Afganistan nel 1983, ma questi falsi che facevamo della Pravda arrivavano in un sistema che era talmente censorio, in cui c’era soltanto un giornale che pretendeva di essere la voce della verità che, anche solo falsificando quel giornale riuscivi ad ottenere un enorme effetto di rimbalzo. Questo effetto oggi è impossibile, dovresti interferire su migliaia di siti, di reti televisive, e questo rende tutto molto più difficile.

Sempre restando in argomento censura, oggi la morale comune sembra talmente peggiorata che quel che ha fatto Pazienza farebbe probabilmente più rumore…
A parte tutti i disegni che ha fatto, soprattutto negli ultimi anni della sua vita per farsi dare qualche soldo, il 90 per cento di quel che produceva Andrea lo pubblicavamo su giornali e riviste che facevamo noi, che decidevamo noi, su cui avevamo il pieno controllo. Anche vivendo un conflitto pesante con l’ordine costituito. Io ho subito un paio di centinaia di processi, condanne, arresti, anni di galera, sospensioni, condizionali, la repressione era pesante, però si riusciva combatterla infischiandosene, violando le regole. Oggi, per una serie di ragioni diverse, quelli che si fanno più notare stanno dentro dei binari molto più rigidi.

Che cosa significa trasgredire al giorno d’oggi?
Oggi c’è un modo facile di sembrare trasgressivi senza esserlo, tipo quando in televisione dicono le parolacce. Ma se una volta andavi in televisione a dire Cazzo facevi un casino, oggi lo dicono ogni tre minuti, non frega più niente a nessuno. Invece le cose profondamente critiche non escono non tanto perché l’editore non le fa uscire e le censura, ma molto più spesso perché sono confinate in un angolo di questo immenso calderone che è internet che manco le vedi. Adesso le cose che girano di più sono certamente più controllate. C’è un controllo imperiale della comunicazione, mi verrebbe da dire e se all’epoca era possibile violare, ora no.

Cosa penserebbe Andrea di questi anni? Come li disegnerebbe?
Naturalmente mi verrebbe da pensare che saremmo ancora qui a lavorare insieme, perché sai, quando una persona muore giovane in un contesto di lotta e di lavoro artistico comune tu te lo immagini che ti accompagni, e magari ora sarebbe qui a Frigolandia a inventare il prossimo numero di Frigidaire, o il prossimo libro, o la prossima mostra d’arte in giro. Penso che parlerebbe di quello che sta accadendo come stiamo cercando di parlarne ancora noi, naturalmente ne parlerebbe a modo suo. Se paragono l’epoca di allora ad oggi mi immagino che avrebbe avuto uno straordinario sviluppo e che sarebbe andata meglio anche a tutti i nostri progetti, se non fosse morto lui, Tamburini e anche altri.

Quel gruppo è stato pesantemente colpito dalle morti precoci, Tamburini e Pazienza su tutti, cosa ha significato per tutta la satira italiana?
Abbiamo perso molto, abbiamo perso un autore, un tipo intelligenza, di coraggio comunicativo straordinario. Quando morì Andrea facemmo un numero di frigidaire il cui titolo era Morto un genio non se ne fa un altro. Proprio per dire che ci sono perdite insostituibili, perdite pazzesche come quella peraltro di Stefano Tamburini. Però bisogna dire la verità: la crisi della satira italiana non può essere giustificata solo alla scomparsa di figure come Andrea e Stefano, per quanto irripetibili e straordinari.

E che crisi è quella in cui versa da anni ormai la satira italiana, almeno quella mainstream?
È una crisi di cattura. Ci sono state in un certo senso delle operazioni di acquisto, si sono comprati una serie di autori e questo è cominciato a succedere quando fecero Cuore, quando quelli del Partito Comunista si inventarono con Michele Serra quella che secondo loro era satira di altissimo livello, ma che per era una rivistaccia, una specie di imitazione di sistema della satira libera che avevamo inventato noi. Poi negli ultimi anni siamo arrivati addirittura a questa specie di giullari della televisione come per esempio Vauro, gente che andrebbe interdetta per tutte le stupidaggini che disegnano e per l’orrore dello stile. Ormai siamo arrivati al fatto che ogni trasmissione ha il suo satiro, ogni giornaletto ha il suo piccolo spazio, certi occupati da gente anche brava, pensa a Vincino che è redattore del Foglio di Ferrara da tanti anni, o Franzaroli, con cui ogni tanto collaboriamo, ma che ha la sua vignetta sul Fatto Quotidiano. Ma una cosa è avere la gestione di un giornale, di un progetto di comunicazione autonomo, un’altra è essere assunti dentro un altro contesto. Io per esempio non accetterei mai di pubblicare qualcosa sul Corriere o su Repubblica, ma ho preferito salvaguardare la totale autonomia con Frigidaire. Tanti invece hanno preferito in qualche modo la sicurezza di una collaborazione certa e la satira è scaduta a vignetta, a barzelletta, lascia il tempo che trova. In questo senso credo che il processo di decadimento della scena satirica sia molto più profondo della mancanza di quello o di questo autore.

Prima parlavi di AFA, organizzato tra l’altro da amici come Hurricane Ivan e Rasta, con cui tra l’altro, insieme a Vito Manolo Roma, Davide Caviglia, Giuliano Kanjano, Giacomo Sargenti e molti altri facevo L’antitempo qualche anno fa. Come vedi questa scena?
Sì, mi ricordo bene dell’Antitempo, e AFA, come ti ho detto, mi è piaciuta molto. Credo che ci sia tantissima qualità in questi progetti, e in generale continua a esserci una diffusa qualità in giro, purtroppo però è veramente difficilissimo che ci si coordini, manca la spinta per fare progetti unitari. Quindi rimane L’antitempo che dura un po’ poi chiude, quell’altro che fa le cose sue e se le vende alle fiere e via dicendo.

Cosa manca?
Manca quello scatto per andare a sfidare la grande comunicazione, perché per affrontarla non puoi farcela se non riesci a coordinarti, a lavorare insieme, a scontrarti con il mondo pesante dei soldi — più che altro nel nostro caso con la mancanza — come trovarli. Ma quello che vedo ora è che vince la tendenza a dirsi che, in mancanza di soldi, tanto vale che ognuno si stampi le sue robe e le venda a 10 euro alle fiere e tutto sommato ci si toglie lo sfizio di fare delle cose. Però vedo in questo una sorta di riduzione di ambizione, questa è la cosa che mi impressiona di più. Anche all’ultimo AFA ho visto tanti ragazzi e tante ragazze che fanno cose molto belle, ma si accontentano di stamparsele e venderle alla bell’è meglio. Mi spiego, si può anche vivere per sempre felici nell’underground e non uscirne, ma io credo che l’ambizione debba essere uscire dall’underground, andare a sfidare la grande comunicazione, la grande politica.

E a livello politico?
Sì, la mancanza di uno spirito anche politico secondo me è una mancanza grave. Al di là delle questioni di stile, di segno e altre cose, qui il punto è che deve esserci anche il ragionamento sulle cose che accadono, l’economia, la filosofia. Sfidare la grande comunicazione significa creare dei centri di pensiero oltre che dei centri di piccola iniziativa e di dimostrazione di bravura. Il paradosso è quando incontri quello che fa delle bellissime cose ma che poi ti dice che non si occupa di politica. Ecco, quello è il modo con cui quelli potenti vorrebbero che noi ci rincoglionissimo. Naturalmente spero sempre che da questo pulviscolo di cose nascano delle cose più strutturate, più importanti.

Ti aspetti che potrebbe succedere?
Certo, da un momento all’altro, d’altronde siamo in un’epoca in cui è difficile dire che le cose andranno così o cosà. Siamo in un’epoca di strepitosi cambiamenti, basta guardare solo agli ultimi dieci anni: il mondo sta cambiando a velocità mai vista, per ragioni proprio materiali. È possibile che ci sia un ripresa di questa grande dimensione, anche se per ora vedo solo pulviscolo quando servirebbe un’asteroide, ma ripeto, non è per niente un problema di mancanza di qualità, quella c’è, è che manca l’organizzazione.

Prima della sua morte Pazienza non era certamente reputato come oggi, come mai, che è successo?
Va be’, ma è normale, la celebrazione dei morti è facilissima. Si celebrano i morti per evitare di celebrare i vivi, questo va da sé. Non a caso Andrea è diventato quasi paradigmatico, siccome è morto allora si ripubblicano pure gli schizzetti che faceva da bambino, che non hanno nessun valore e che lui non avrebbe mai pubblicato. Perché giustamente li considerava delle prove di uno che voleva cercare il suo stile, non è che tutte le volte che toccava con la penna un foglio di carta tirava fuori un colpo di genio per cui essere immortalato nei secoli. All’epoca la commissione editoria ci tagliò i contributi di cui avevamo diritto per mezzo miliardo di lire, massacrando un meccanismo editoriale che eravamo faticosamente messo in piedi. Andrea quel giorno scrisse una lettera aperta, ma non rispose nessuno, cadde nel silenzio. Cioè, in vita lo costringono a disegnare per le peggio riviste per tirare a campare, poi invece adesso, da morto, lo celebrano tutti con questo mito orribile del genio assoluto. Guarda, è una cosa che credo anche allo stesso Andrea, se fosse vivo, gli farebbe schifo. Tra l’altro vengono celebrate più le stupidate che le cose importanti. Ma è facile celebrare i morti, ma è come con Che Guevara, quando era vivo era un criminale ricercato dalle polizie di tutto il mondo, ora ci fanno le magliette.

Se Pazienza potesse ascoltare questa nostra conversazione come reagirebbe?
Purtroppo, come si sa, i morti non ci sentono e vivono soltanto nel nostro ricordo, ma se dovessi pensare che Andrea ci stesse ascoltando ora sono sicuro che condividerebbe quel che ci siamo detti. Anche un certo disprezzo per questi che lo incensano post mortem, un esempio su tutti, quella sorta di cortigiano televisivo di Vincenzo Mollica, che dopo morto bacia pure dove hai camminato ma prima ti tratta malissimo. Ti racconto solo questo: quando morì Tamburini io ero in redazione con Andrea e Filippo Scòzzari, e stavamo aspettando Liberatore che già viveva a Parigi. Era appena morto Stefano, avevamo trovato il cadavere, una cosa terribile come puoi immaginare. Avevamo mandato un comunicato in giro, ma ai telegiornali nessuno disse nulla. Allora io chiamai Mollica, che all’epoca da buon cortigiano, visto che Frigidaire era una rivista tutto sommato importante, lui ogni tanto si faceva vedere. Quando quel giorno lo chiamai e gli chiesi come mai i giornali e i telegiornali non avevano dato la notizia della morte di Tamburini lui mi disse «Eh, ma lo sai, in fondo Tamburini non era poi così famoso… Fosse morto Liberatore…». In quel momento riattaccai dopo averlo mandato a quel paese e mi ricordo che di fianco c’era Andrea e Filippo, gli raccontai ‘sta storia, dopodiché, nei due anni seguenti l’abbiamo sempre evitato. Io in realtà lo evito tutt’ora. Poi è morto Andrea, dopo due anni, e lui è diventato, dopo morto, il suo miglior amico.

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