Zuckerberg non è il male assoluto, e la guerra contro Facebook è una faida tra potenti

Dopo lo scandalo Cambridge Analytica, ora il New York Times pubblica un'altra inchiesta contro Facebook, ma mentre per tutti il gigante di Menlo Park è il cattivo della situazione, forse la realtà è che nella giungla del capitalismo, quando un predatore è in difficoltà, tutti se lo vogliono mangiare

Il più grande inganno del capitalismo, scriveva Mark Fisher nel suo Realismo Capitalista, è averci fatto credere che non esistessero alternative ad esso e, potremmo aggiungere, se ce l’ha fatta a inocularci questa idiozia è anche perché, almeno in apparenza, il modello a cui si è liberamente ispirato è un modello naturale: la giungla, in cui vige, come nel capitalismo, la legge del più forte e in cui la regola numero uno è che quando il più forte ha un momento di difficoltà i suoi concorrenti reagiscono attaccandolo, cercando di diventare loro i più forti della giungla.

Una cosa simile sta accadendo in questi ultimi mesi a Facebook, maschio alfa della giungla delle cosiddette OTT, le società Over The Top, che, dopo lo scandalo che gli si è rovesciato addosso in seugito all’affaire Cambridge Analytica si è ritrovato, unica azienda del suo tipo e della sua stazza, davanti a non uno, bensì a due platee d’eccezione, quella del senato americano e quella del Parlamento Europeo.

Il gigante di Menlo Park, che con i suoi 2,2 miliardi di utenti attivi al mese, i suoi 25mila dipendenti e i suoi oltre 40 miliardi di dollari di fatturato nel 2018, è certamente uno di questi predatori. Non il più grande, in questo momento, visto che come fatturato nel 2017 è stata superata in ordine da Apple, Amazon e Alphabet. Ma, visti i numeri di crescita costante — nel 2017 a più 50 e spicci per cento di crescita di fatturato — è certamente il predatore più famelico e sta incutendo paura da anni a tutti gli altri sia per la sua crescita costante, sia per l’acquisizione di cosine come Whatsapp e Instagram, per citare le più grosse.

Non è una novità. Facebook fa paura a tutti già dal lontano 2010, quando la piattaforma social aveva “appena” mezzo miliardo di iscritti e Google le aveva ingaggiato un guerra aperta, sia sui prodotti — ricordate il lancio di Google Plus nel giugno del 2011 — sia, già all’epoca, sui dati personali dei propri clienti, che Google aveva interrotto a fronte della mancata condivisione da parte di Facebook.

Eppure, è negli ultimi mesi che la guerra “tutti contro Facebook” è apparsa ancora più evidente, tanto che il CEO di Apple Tim Cook, durante il recente Worldwide Developer Conference che si è tenuto a San Jose, in California, ha annunciato novità importanti: dal sistema anti tracciamento su Safari, pensata per impedire il tracciamento da parte di Facebook fuori dalla piattaforma, ma anche la app Screen Time, una sorta di tool anti dipendenza che è stato testato, e non è un caso, proprio su Facebook e Instagram.

È un passo in avanti, anche se forse non ancora aperto, nell’escalation della guerra di Apple contro Facebook. E mentre Google e Apple si muovono strategicamente per arginare il nemico, anche altrove la battaglia continua: è il caso della stampa di mezzo mondo, che dopo anni passati a sentirsi sfruttata dal social network più grande del mondo, non ha tentennato un attimo per saltarle subito alla giugulare. A partire dall’Economist, la cui copertina “Epic Fail” subito dopo lo scandalo Cambridge Analytica fu aggressiva tanto quanto inopportuna, visto che lo stesso settimanale britannico — come sostanzialmente tutti — usava il pixel di tracciamento di Facebook per organizzare campagne di remarketing sui propri visitatori.

E ancora, da ultimo, il New York Times, che negli ultimi giorni ha pubblicato un’inchiesta in cui rivela che Facebook avrebbe concesso il permesso di utilizzare alcune API — in buona sostanza moduli automatici di comunicazione tra applicazioni, foriere, come molte alte cose, di dati — ad alcuni giganti della telecomunicazione, dalla stessa Apple a Samsung, fino ad alcune compagnie cinese tra cui Huawei, considerate dagli Stati Uniti un pericolo per la sicurezza dello Stato.

Ma se Facebook è colpevole, cosa che speriamo verificherà un tribunale competente e non la pubblica piazza, allora lo sono tutti. Da Amazon, la cui affiliazione viene usata da moltissimi siti sia personali che pubblici e che registra le sessioni di un utente per 24 ore, fino a qualsiasi produttore di smartphone, che per accettare di far funzionare sui propri dispositivi le nostre applicazioni preferite richiede la condivisione di dati personali; e ancora, allora sono colpevoli anche le miliardi di applicazioni che, per funzionare, richiedono al condivisione delle vostre rubriche, della vostra posizione, delle vostre preferenze e dei vostri like.

Insomma, il predatore sanguina, e mentre è attaccato ed esposto alla pubblica gogna, ancorché naif e a tratti surreale, dai politici americani ed europei, viene accerchiato ed attacatto non solo dai suoi nemici, ma pure da molti di noi, attraverso campagne un po’ grottesche come #deletefacebook, per esempio.

Il capitalismo è una giungla, dicevamo all’inizio, e nella giungla l’unica regola che vale è quella del più forte. Non esiste compassione, né pietà, è l’ultimo che sta in piedi quello che vince. Ora, in questo caso è difficile dire chi la spunterà, anche perché è difficile pensare che uno di questi giganti possa crollare. E se è meglio non mettersi a giocare alle profezie, quantomeno possiamo prenderci una pausa dalla lotta di classe estenuante in cui ci siamo cacciati — quella tra poveri e super poveri — sederci sulla riva del fiume e goderci lo spettacolo di una nuova e inedita guerra civile all’interno del tanto stigmatizzato 1%. Io, per simpatia innata verso le posizioni deboli, per ora tifo Facebook.

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