Quest’estate, mentre al centro delle ansie nazionali ci sono gli immigrati, al centro dei mugugni genovesi ci sono i turisti. È noto: la tipica accoglienza ligure si fa più intensa con l’intensificarsi delle libecciate. La scuola comica genovese più recente, con l’esperienza dei Pirati dei caruggi, ha saldato canone e parodia coniando slogan più veri che verosimili. Le alternative offerte dall’accoglienza ligure, ormai tipicamente, si restringono non troppo metaforicamente a due: torta di riso o prendersela nel culo. E al dunque, la torta di riso, è sempre finita.
Chiunque sia mai venuto in vacanza in Liguria non può non saperlo. Eppure, il passaparola non funziona: nonostante i salassi, il mugugno e la macaia, l’invasione non si ferma. Giapponesi, tedeschi, e soprattutto milanesi, non fanno che arrivare, con le loro brave macchine fotografiche, gli inguardabili sandali coi calzini e il loro – come definirlo facendo finta di non essere prevenuti – brambillismo rampante? A noi genovesi, perché negarlo, i foresti non sono mai piaciuti col cuore, solo col portafoglio. Ma, con buona pace di Salvini, Di Maio e xenofobi col culo degli altri vari, il problema non sono gli immigrati, che nel pieno dell’inverno demografico europeo, non ci fossero loro, gli asili sarebbero vuoti come le casse previdenziali e noi saremmo infelici come finlandesi finiti gli antidepressivi. Ai bei tempi della Genova oligarchica, culla del capitalismo finanziario, potenza del mediterraneo e cassa di prestiti per le guerre europee, quando i mori catturati dal principe corsaro Andrea Doria non erano costretti al remo delle galee, durante la permanenza in città non venivano trattati peggio degli altri ultimi della terra: giravano liberi di vendere il proprio lavoro, avevano la loro moschea e il loro quartiere vicino al porto.
Il problema sono i turisti.
Il passaparola non funziona: nonostante i salassi, il mugugno e la macaia, l’invasione non si ferma. Giapponesi, tedeschi, e soprattutto milanesi, non fanno che arrivare, con le loro brave macchine fotografiche, gli inguardabili sandali coi calzini e il loro – come definirlo facendo finta di non essere prevenuti – brambillismo rampante? A noi genovesi, perché negarlo, i foresti non sono mai piaciuti col cuore, solo col portafoglio
Tra gli esercenti cittadini, per sangue spinti a onorare la contraddittoria mentalità capitalistica (la vendita della corda con cui si verrà impiccati etc, etc…), e quindi nonostante la diffidenza a non osarsi cacciare chiunque paghi pronta cassa, c’è chi sogna una Genova più turistica. Dal G8 nel 2001 e dalla nomina a capitale europea della cultura nel 2004 (ma già con le Colombiadi del ’92) ci hanno provato con più lena, bonificando parte dei vicoli da bagasce e spacciatori, lanciando bandi per rinnovare il logo cittadino (ora include la frase more than this, che secondo i banditori dovrebbe farci sentire più internazionali, e che invece è solo la vendetta sotto forma di beffa dei vincitori del bando, savonesi, storici rivali cui Andrea Doria interrò il porto per punizione), nuovi pesci per l’acquario e tanta nostalgia per i cantautori scomparsi ridotti a santini.
Belin, ma se è di palanche che parliamo, cosa c’è di più genovese che sognare di trasformare Genova in Venezia per battere cassa?!?
La tentazione, si capisce, è forte. Ma Genova è nata e vissuta superba, non serenissima, e dopo aver dominato i mari e inventato le banche, abbiamo vissuto di porto e di grandi fabbriche fino a pochi anni fa, non della vendita di mascherine di carnevale e miniature di San Marco. L’idea che l’economia cittadina si regga sulla vendita di palle di vetro con dentro La Lanterna, come potrebbe non farci venire l’anguscia? Per fortuna, possiamo contare su involontari paladini, come il signor Vanni, gestore di una di quelle nuove trappole attira turisti che sono sorte come funghi (hamburgherie, risotterie, polpetterie, chupiterie…) a imbellettare e snaturare la parte bonificata del centro storico “più grande d’Europa” (antica leggenda narra che se un genovese pronuncia le parole “centro storico” senza aggiungere “più grande d’Europa”, muore). Il signor Vanni, già patron del bar della principale biblioteca cittadina (memorabili i modi garbati con cui invitava ad allontanarsi dai tavoli del cortile gli studenti non consumanti), di fronte a una mamma* intenta ad allattare il figlio seduta sui gradini a pochi centimetri dal suo locale (quindi, evidentemente e colpevolmente, non consumante), non ce l’ha fatta a tenersi il fastidio e ha finito col dar libero sfogo alla reprimenda che sicuramente albergava da tempo al fondo della sua coscienza: «è una questione di decenza!», sembra aver detto alla brava mamma, che “ancora sotto shock”, immantinente si sfoga su Facebook con un post perfetto per gli umori da ombrellone. Il parapiglia social che ne segue ha poco d’interessante: lei si sfoga, lui si scusa, tutti precisano, i giornali, bontà loro, rinfocolano.
Per fortuna, possiamo contare su involontari paladini, come il signor Vanni che di fronte a una mamma* intenta ad allattare il figlio seduta sui gradini a pochi centimetri dal suo locale (quindi, evidentemente e colpevolmente, non consumante), non ce l’ha fatta a tenersi il fastidio e ha finito col dar libero sfogo alla reprimenda che sicuramente albergava da tempo al fondo della sua coscienza: «è una questione di decenza!»
Il punto, chiaramente, non è donne libere o non libere di allattare in pubblico. Non c’entra niente il genere, e nemmeno la decenza: siamo gente di mare, i nostri avi raccontavano di becciarsi le sirene ai confini del mondo, niente può veramente scandalizzarci. Il punto è che non ci piace chi non consuma. Non ci piacciono i perdigiorno. Non ci piacciono i turisti. Il punto è il sacro diritto all’intolleranza, il salutare esercizio dell’inospitalità. E gli ospiti non sono gli immigrati, che son braccia e intelligenze venute per restare, ma i turisti, venuti per celia, e subito pronti a ripartire. Razza faticosamente sopportabile se pagante, se non pagante è un attimo che la tolleranza si trasformi in intransigenza. Non dobbiamo pensare al Vanni come a un misogino, o un uomo sull’orlo di una crisi di nervi. Il Vanni in realtà siamo noi genovesi, o potremmo e dovremmo esserlo: un novello Balilla che invita i suoi concittadini a insorgere contro l’oppressore straniero al grido “Che l’inse?”. Un monito, un simbolo, un gesto minuto che può cadere nel vuoto, o portare a un effetto farfalla, a una rivoluzione cittadina. Qualcosa sappiamo con certezza della nostra città: fu grande piena di immigrati e vuota di turisti. Gli immigrati sono sempre stati una risorsa. I turisti, nel migliore dei casi, un’occasione. Se non proprio rimandarli tutti a casa, rivendicando il diritto di difenderci se attaccati (ora è un invito ad andarsene causa esposizione non pagante di una tetta, domani chissà, sparare alle gomme di un milanese in coda per Varazze), o schedarli, potremmo almeno provare a regolamentare i flussi.
Il melting-pot suscitato dalle migrazioni, alla lunga, rafforza rinnovandola l’identità delle città che l’assoggettarsi ai turisti, al contrario, standardizza e insterilisce, fino a renderle bomboniere senz’anima. Già oggi la fragile anima di Genova resiste appena al gentrificante vento che spira dalle terre dell’Expo grazie ai suoi nuovi cittadini regolari e irregolari, che tengono vivo il vero centro storico (come i terroni decenni fa), quello dove i turisti, per l’amor e il timor di dio, non vanno. I sestieri di Prè e della Maddalena, colorati e caotici, sono il pacemaker che rianima nella memoria di chi ci vive o ci passa l’odore di una vera città di mare, sporca e stretta, popolosa e buia, aspra e commovente in tutta la sua irrequieta superbia. Domani, quelle intelligenze e quelle fami, quelle abitudini esotiche e quelle braccia, quelle nuove generazioni di esseri umani premessa e conseguenza della favolosa capacità di rinnovarsi degli esseri umani, potrebbero rendere di nuovo grande la grande Repubblica che Genova fu. O quantomeno aiutarci a limitare le code sull’Aurelia.
*è più che possibile che la mamma in questione non fosse turista bensì autoctona, ma la storia è piena di equivoci, miti e leggende che ne hanno influenzato il corso, e il valore del gesto del Vanni contro i turisti, come già il sasso del Balilla contro gli austriaci a metà ‘700, trascende il gesto stesso, per farsi simbolo di un’aspirazione ideale di libertà.